Cassazione civile, Sezione Lavoro, Sentenza del 2 Febbraio 1991 n. 1054

Enti di previdenza e assistenza
( Competenza )

Massima e testo integrale

MASSIMA:
L’ art. 3, comma 2 del D.L.C.P.S. 16 luglio 1947 n. 708, nel prevedere la possibilità che l’ obbligo d’ iscrizione all’ E.N.P.A.L.S. sia esteso, con decreto del capo dello Stato su proposta del ministro di lavoro, ad altre categorie di lavoratori dello spettacolo non contemplate dal comma 1 dello stesso articolo, adopera l’ espressione “lavoratori dello spettacolo” in senso non generico ma tecnico, derivandone altrimenti l’ illegittimità – per indeterminatezza – della delega attribuita al ministro. Pertanto, la determinazione del settore dello “spettacolo”, ai fini della verifica della legittimità del DPR 19 marzo 1987 n. 203 (che ha esteso l’ obbligo dell’ iscrizione all’ E.N.P.A.L.S. “agli indossatori ed ai tecnici addetti alle manifestazioni di moda”), non può prescindere dalla individuazione che di quel settore è stata effettuata dalla disciplina collettiva, con la conseguenza che, riferendosi il citato art. 3 del provvedimento legislativo del 1947 non a qualsiasi forma di manifestazione con il concorso del pubblico ma solo a quelle, come l’ interpretazione di un testo letterario o musicale, intrinsecamente rivolte a produrre uno spettacolo, l’ obbligo dell’ iscrizione all’ E.N.P.A.L.S. per le indossatrici deve ritenersi illegittimo, per eccesso dalla delega, se riferito indiscriminatamente ad ogni sfilata di moda, potendo la relativa attività essere inquadrata nell’ ambito dello spettacolo solo in quanto organizzata, con finalità proprie e caratteristiche della produzione dello spettacolo, da soggetti diversi dai produttori di modelli di abbigliamento.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONESEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Alberto ZAPPULLI Presidente
Mario VACCARO Consigliere
Raffaele NUOVO
Fulvio ALIBERTI
Massimo GENGHINI Rel. “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da
VERSACE GIOVANNI s.r.l., in persona del legale rappresentante pro-tempore elettivamente domiciliata in Roma Lung. Michelangelo 9, presso l’ avv. Mattia Persia che unitamente all’ Avv. Salvatore Trifirò e Bruno Biscotto la rappresenta e difende per procura speciale a margine del ricorso;

Ricorrente

contro

per l’ annullamento della sentenza del Tribunale di Milano in data 23.5.89 dep. il 21.6.89 (R.G. n. 635-88);
udita nella pubblica udienza tenutasi il giorno 3.12.90 la relazione della causa svolta dal Cons. Rel. Dott. Genghini;
uditi Persiani, Trifirò e Curti;
udito il P.M. nella persona del Sost. Proc. Gen. Dott. Gennaro Salvatore Tridico che ha concluso per l’ accoglimento dei primi due motivi e con assorbimento del terzo.

Fatto

La società in epigrafe ricorreva al Pretore di Milano in quanto, a seguito di varie sfilate di moda alle quali aveva partecipato unitamente ad altre società operanti nel settore, e del controllo compiuto dagli ispettori dell’ Ente nazionale di previdenza ed assistenza per i lavoratori dello spettacolo (E.N.P.A.L.S.) in relazione agli adempimenti connessi all’ attività delle indossatrici e dei relativi contributi, deduceva che il DPR 19 marzo 1987 n. 203, il quale aveva aggiunto alle categorie di lavoratori assoggettate all’ obbligo di iscrizione all’ E.N.P.A.L.S. gli “indossatori e tecnici addetti alle manifestazioni di moda”, era illegittimo in quanto, in violazione del d. Lgt. C.P.S. 16 luglio 1947 n. 708, ratificato con legge 29 novembre 1952 n. 2388, vi aveva incluso una categoria di lavoratori non appartenente al settore dello spettacolo, essendo le sfilate di moda una attività commerciale finalizzata alla vendita del prodotto.
In subordine, deduceva che la legge istitutiva dell’ E.N.P.A.L.S. era incostituzionale se interpretata nel senso dei consentire l’ estensione del relativo regime previdenziale alle indossatrici; che, in ulteriore subordine, gli obblighi contributivi verso l’ E.N.P.A.L.S. dovevano essere imputati sulla base dei contratti d’ opera con le indossatrici dei quali erano titolati le agenzie, dovendosi comunque escludere un contratto di lavoro subordinato.
Chiedeva pertanto accertarsi la insussistenza di un obbligo contributivo e-o assicurativo nei confronti dell’ E.N.P.A.L.S. in relazione ai rapporti intercorsi con le indossatrici; in subordine sospendersi il giudizio e trasmettersi gli atti alla Corte Costituzionale per la declaratoria di incostituzionalità dell’ art. 3 secondo comma del D.Lgs.C.p.S. n. 708 del 1947 in relazione agli artt. 3 e 38 della Costituzione; in via ulteriormente gradata accertarsi l’ obbligo contributivo in relazione al contratto di lavoro subordinato.
Si costituiva l’ E.N.P.A.L.S. ed eccepiva la legittimità del DPR n. 203 del 1987, concludendo per il rigetto del ricorso.
Il pretore negava l’ obbligo contributivo nei confronti dell’ E.N.P.A.L.S. posto che il termine “spettacolo” era stato usato dal legislatore, nel decreto del 1947, nel suo significato rigorosamente lessicale, laddove le sfilate di moda, organizzate per proporre al pubblico un prodotto e per realizzare la migliore commercializzazione dello stesso, rappresentavano un fenomeno esclusivamente commerciale e promozionale; pertanto, ritenendone la illegittimità, disapplicava il citato DPR n. 203, qualificato come atto amministrativo di natura regolamentare.
Riteneva in particolare il pretore che la espressione “spettacolo”, quando è usata per indicare un settore produttivo distinguendolo dagli altri, come nella norma del 1947, non può che essere intesa nel senso di manifestazione artistica o ricreativa, cioè come manifestazione che trova in sè stessa, e non in finalità ulteriori, commerciali o di altro genere, la sua ragione di essere.
Contro questa sentenza proponeva appello l’ E.N.P.A.L.S. sostenendo che il DPR impugnato costituiva lo strumento predisposto dal legislatore per il pronto adeguamento al sorgere di nuove figure di lavoratori dello spettacolo e nello spettacolo; che la sfilata di moda, in quanto si trova in un ambiente di spettacolo, come nella fattispecie, costituiva spettacolo nel senso voluto dal legislatore; chiedeva pertanto la riforma della impugnata sentenza. Si costituiva la società appellata che resisteva al gravame e riproponeva le domande subordinate proposte innanzi al pretore, ricordando come il Ministero del Lavoro avesse sospeso l’ applicazione del DPR n. 203 del 1987, data l’ opportunità di riesaminare la materia.
Il tribunale accoglieva l’ appello ed affermava sussistere l’ obbligo contributivo a carico della società.
Riteneva in particolare: a) il DPR n. 203 del 1987 è atto avente natura regolamentare ai sensi del quinto comma dell’ art. 87 della Costituzione, non avente natura nè di legge delegata, nè di mera esecuzione della legge, bensì modificativo ed innovativo rispetto alla legge autorizzante onde può parlarsi di “regolamento delegato o autorizzato, categoria problematica, sovente contestata, ma diffusamente ammessa”. b) la delimitazione del potere normativo è data in modo sufficiente con la estensione “ad altre categorie di lavoratori dello spettacolo”; il settore dello spettacolo non è legislativamente definito ed è “suscettibile di evoluzione”, talché non può essere assunto come cristallizzato all’ epoca della approvazione della legge, altrimenti “la stessa autorizzazione al decreto non avrebbe ragione d’ essere”; ne consegue che, se il decreto presidenziale rispetta il contenuto della legge autorizzante correttamente interpretata, anche in senso evolutivo, deve ritenersi legittimo. c) la differenza della entità della contribuzione di cui al secondo comma dell’ art. 2 del DPR 31 dicembre 1971 n. 1420 prescinde dalla natura autonoma o subordinata della attività svolta dai lavoratori predetti, essendo invece in relazione al carattere strettamente artistico proprio delle prime quattordici categorie di lavoratori di cui all’ art. 3 del cit. d. Lgt. C.P.S. n. 708 del 1947, ed al diverso carattere di supporto proprio delle successive categorie, incluse quelle di cui ai nn. 20 e 21 introdotti dalla legge 29 novembre 1952 n. 2388 (Cass. 12 giugno 1987 n. 5193). d) il concetto di spettacolo, inteso come pubblico trattenimento a carattere eminentemente visivo, basato sulla finzione (teatro, cinema, radio, televisione) aveva subito una evoluzione, talché “il senso in se stesso dello spettacolo sempre piè trova anche scopi ulteriori, eminentemente commerciali”; oltre alla vendita del biglietto si deve pensare allo spettacolo sponsorizzato, veicolo di notorietà dello sponsor e di promozione dei suoi prodotti, nonché alla pubblicità ed agli “spots” d’ autore, nei quali il senso dello spettacolo è nel loro scopo commerciale. e) nella sfilata di moda l’ aspetto dello spettacolo si sovrappone all’ aspetto commerciale e lo trascende per diventare veicolo di conoscenza di un fenomeno culturale; nè l’ aspetto commerciale appare legato solo alla vendita degli abiti esibiti, poiché lo “spettacolo-sfilata, tanto piè in quanto ripreso dai mezzi di comunicazione di messa, ha un piè ampio effetto amplificatore sul nome dello stilista-casa di moda”; la selezione del pubblico con inviti non appare caratteristica determinante della qualificazione in termini commerciali anziché di spettacolo, per la “commistione tra i due aspetti” e dato che anche un pubblico teatrale può essere selezionato per inviti. Il modo stesso di esplicarsi della sfilata di moda, corrisponde in molti elementi ed anche nella prestazione delle indossatrici, alle caratteristiche dello spettacolo; elementi essenziali dello spettacolo sono il contesto scenico e la finzione, o, quanto meno, come nel caso dei calciatori (legge 14 giugno 1973 n. 366), il gioco. f) non sussiste la illegittimità costituzionale dell’ art. 3 del cit. d. Lgt. C.P.S. n. 708 del 1947 per contrasto con gli artt. 3, 23 e 38 della Costituzione, in quanto il DPR n. 203 del 1987 risulta precisamente determinato in base alla legge autorizzativa, e non potendosi escludere che le prestazioni delle indossatrici non abbiano carattere meramente occasionale e siano tali da consentire sia la prosecuzione volontaria, sia la ricongiunzione dei periodi assicurativi. g) lo spettacolo in questione è riconducibile alle case di moda e non alle agenzie che hanno assunto le indossatrici, posto che “le case di moda sono le beneficiarie della prestazione d’ opera, che è realizzata sotto la loro direzione”, mentre il fatto che “siano leenzie ad ingaggiare le indossatrici è un dato privo di decisivo rilievo” in quanto corrispondono somme comprendenti il compenso dell’ indossatrice oltre una percentuale per l’ agenzia, di modo che di fatto versano il corrispettivo della prestazione dell’ indossatrice anche se non lo pattuiscono, selezionano il personale idoneo tramite richiesta nominativa ovvero visionando i cataloghi, eventualmente anche con una prova, e con facoltà di “protestare”, cioè rifiutare, il personale inidoneo; d’ altra parte l’ obbligo contributivo non presuppone necessariamente l’ esistenza di un rapporto di lavoro subordinato (Cass. n. 2316 del 1982).
Contro questa sentenza ha presentato ricorso la S.r.l. casa di moda; resiste con controricorso l’ E.N.P.A.L.S.; entrambe le parti hanno presentato memoria.

Diritto

Con il primo mezzo la ricorrente si duole per la violazione dell’ art. 3 del D.L.C.P.S. 16 luglio 1947 n. 708, degli artt. 1, 2, 3, 4, 10 e 12 delle preleggi, dell’ art. 2070 cod. civ. (art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.) in quanto il cit. D.L.C.P.S. è stato integrato con il DPR 15 marzo 1987 n. 203 che al n. 9 dell’ art. 3 ha aggiunto fra i lavoratori dello spettacolo gli indossatori; tale integrazione è illegittima e doveva essere disapplicata dal giudice di merito, in quanto aveva ecceduto dai limiti della legge delegante, che aveva conferito il potere di integrare la norma giuridica limitatamente ai lavoratori dello spettacolo, tali non potendosi considerare gli indossatori; la attività della sfilata di moda esula dallo spettacolo ed è sussidiaria della attività commerciale ed industriale dell’ abbigliamento, posto che, ancorché inserita in contesti rappresentativi, spesso di evidente carattere spettacolare, è intesa unicamente alla commercializzazione del prodotto presentato; è costante giurisprudenza che ai sensi dell’ art. 2070 cod. civ. l’ appartenenza alla categoria professionale si determina secondo l’ attività effettivamente esercitata dall’ imprenditore; in subordine la norma delegante era costituzionalmente illegittima per indeterminazione e genericità della delega.
Con il secondo motivo la ricorrente censura la sentenza per insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 cod. proc. civ.) in quanto il concetto di spettacolo non è stato interpretato in senso tecnico giuridico e con riferimento ad un determinato settore produttivo, non potendosi considerare gli indossatori o le indossatrici alla stregua degli attori, così come qualsiasi altro lavoratore autonomo o subordinato non muta la natura della sua attività per il solo fatto che la medesima viene ripresa dalla televisione nell’ ambito di uno spettacolo televisivo; occorreva avere riguardo al fine socio-economico della prestazione, che non è rivolta alla produzione di uno spettacolo, ma alla commercializzazione dei prodotti di abbigliamento; la nozione di spettacolo presuppone una rappresentazione di un’ opera artistica o similare e non può realizzarsi in un fenomeno commerciale, promozionale e di vendita: il pubblico che accede ad una sfilata, a prescindere dalle caratteristiche spettacolari della medesima, intende decidere se e quali capi di abbigliamento acquistare, per poi commercializzarli nei propri negozi.
Diversamente ogni fiera, esposizione, dimostrazione ed attività, per il solo fatto di essere ripresa dalla televisione, diverrebbe spettacolo secondo una accezione del termine così estesa.
Con il terzo motivo la ricorrente si duole per la violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 23, 70 e 77 primo comma della Costituzione (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.) per avere la sentenza rigettato la questione di legittimità costituzionale del cit. D.L.C.P.S. n. 708 del 1947 per la indeterminatezza della potestà regolamentare ove venisse accolto un significato talmente esteso dello spettacolo; ne conseguiva che se il legislatore intendeva estendere l’ area dei soggetti da assicurare con l’ E.n.p.a.l.s a categorie diverse da quella dello spettacolo, doveva stabilirlo, come del resto aveva fatto per categorie similari, ricorrendo alla legge: la potestà regolamentare non può esercitarsi oltre i limiti posti dalla legge che la prevede, senza incorrere nella dilatazione a dismisura della competenza assicurativa dell’ E.N.P.A.L.S. e non può risolversi nella imposizione di una prestazione patrimoniale non in base alla legge, in contrasto con l’ art. 23 della Costituzione.
Il ricorso, i cui motivi per la loro evidente connessione possono esaminarsi congiuntamente, è fondato e va accolto per quanto di ragione.
Le questioni che occorre partitamente esaminare, e secondo questo ordine logico, sono: a) quale sia la natura giuridica del DPR 16 luglio 1947 n. 708; se la medesima natura consentiva la emanazione del successivo DPR 19 marzo 1987 n. 203, ovvero se, precisata la natura di quest’ ultimo decreto, deve ritenersi che il citato decreto n. 708 avesse determinato i limiti della delega in modo talmente generico da doversi ritenere illegittimo; qualora si ritenesse il medesimo DPR n. 708 illegittimo per genericità della delega, ovvero il citato DPR n. 203 emanato su materia eccedente i limiti della delega, se ciò comporta la possibilità di esame degli stessi da parte della Corte Costituzionale, ovvero la disapplicazione da parte del giudice ordinario; b) quale significato, e con l’ ausilio di quali strumenti ermeneutici, debba attribuirsi alla espressione “lavoratori dello spettacolo” usata dal legislatore nel citato DPR n. 708; in particolare se la attività delle indossatrici di moda ed in genere degli addetti a questo genere di manifestazione, possa ritenersi incluso nella astratta previsione legislativa dei “lavoratori dello spettacolo”, per i quali era stata conferita la delega; c) se appare sufficiente ed immune da vizi la motivazione della impugnata sentenza in virtè della quale le indossatrici di una sfilata di moda sono state ritenute da includere nella categoria “lavoratori dello spettacolo”, e ciò, in particolare, con riferimento alla specifica fattispecie nella quale alla manifestazione partecipavano numerosissime aziende di moda, e le indossatrici risultavano assunte e retribuite da una agenzia, con la quale avevano concordato il compenso. a) Per quanto concerne la natura del cit. decreto n. 203 del 1987, l’ inquadramento giuridico datone dalla impugnata sentenza appare corretto.
In via generale si deve premettere che, anche se i soli regolamenti statali dei quali fa menzione la Carta costituzionale sono quelli emanati dal Presidente della Repubblica, da ciò non può dedursi che sia stata riservata alla competenza esclusiva del Capo dello Stato l’ emanazione dei regolamenti e che quindi sarebbero illegittime, in riferimento all’ art. 87, comma 5, tutte le disposizioni di legge, tra le quali appunto il D.Lgs.C.p.S. 16 luglio 1947 n. 708, che attribuiscono tale potestà ai ministri. Infatti è da escludere, secondo la Corte Costituzionale (sent. n. 79 del 3 giugno 1970), che la Costituzione, con il solo cenno fattone all’ art. 87, abbia inteso regolare tutta la materia dei regolamenti statali del potere esecutivo, e deve ritenersi che una legge o un atto avente la stessa efficacia della legge formale, quale è il citato D.Lgs.C.p.S. n. 708 del 1947, possa attribuire ad un ministro la potestà di emanare norme regolamentari. È noto invero che l’ art. 3, secondo comma, delle disposizioni preliminari del codice civile, il quale prevede il potere regolamentare di altre autorità diverse dal Governo, previsto dal primo comma, “in conformità delle leggi particolari” diverse e contrapposte alle leggi di carattere costituzionale, ha avuto carattere innovativo rispetto alla legge n. 100 del 31 gennaio 1926 divenuta nel 1928 legge di carattere costituzionale; tale norma, infatti, è stata interpretata nel senso di consentire alla legge ordinaria di attribuire poteri regolamentari a singoli organi del potere esecutivo diversi dal Governo, superandosi così le forti perplessità che in giurisprudenza e in dottrina si erano manifestate con riguardo alla legittimità dei regolamenti ministeriali.
Si ritiene comunemente che la Costituzione abbia presupposto il fenomeno regolamentare e che la potestà regolamentare trova la sua fonte in disposizioni legislative anteriori e successive alla stessa Costituzione.
Secondo la Corte Costituzionale (sent. n. 79 del 3 giugno 1970) se i regolamenti ministeriali erano ammissibili prima della entrata in vigore della Costituzione repubblicana, “non si vede perché dovrebbero essere emanati con decreto del Capo dello Stato ora che la posizione costituzionale di questo organo è diversa da quella che aveva nel precedente ordinamento”.
La Costituzione della Repubblica ha generalmente attribuito il nomen juris di legge alle sole leggi formali, dello Stato e delle Regioni, giungendo a distinguere all’ art. 87 la promulgazione delle leggi e dei decreti aventi valore di legge, dalla emanazione dei regolamenti.
Questi ultimi sono atti amministrativi, legislativi dal punto di vista materiale, o, secondo quanto ritiene la piè moderna dottrina, atti “normativi”; questi, peraltro provengono da enti di vario genere, anche non statali, ed assumono in questo caso pienamente il carattere di atti amministrativi.
La delegazione di cui all’ art. 76 della Costituzione consiste nel trasferimento dell’ esercizio della funzione legislativa al Governo inteso nel senso tecnico risultante dall’ art. 92 della Costituzione: organo complesso e collegiale formato dal Presidente del Consiglio e dai ministri.
Nel caso in esame, evidentemente, si è al di fuori della delegazione anzidetta, proprio perché il potere regolamentare è attribuito non al Governo, ma ad un singolo ministro; e tuttavia si tratta di un potere sui generis, atteso che lo stesso è previsto da un atto avente valore di legge (il cit. decreto del 1947 n. 708), e conferisce ad una autorità amministrativa il potere di integrare, e così di modificare, la legge stessa: ne è conferma indiretta la stessa tecnica adottata dal DPR del 1987 n. 203, il quale provvede stabilendo che “il punto 9) del primo comma dell’ art. 3 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 16 luglio 1947 n. 708, …è sostituito dal seguente…” riformulandolo identico con la aggiunta di “indossatori e tecnici addetti alle manifestazioni di moda”. Non si versa in una ipotesi di delega legislativa, ma di c.d. decreto delegato o autorizzato, il quale ha il potere di incidere su una norma di legge, modificandola, proprio in virtè della previsione del relativo potere da parte della legge delegante; tale efficacia, del tutto particolare nel nostro ordinamento giuridico, non modifica la natura giuridica dell’ atto in questione, che resta intrinsecamente amministrativo.
La confusione nasce dal fatto che, impropriamente, per questi regolamenti è stata usata la definizione di regolamenti “delegati”, laddove, secondo la piè autorevole dottrina, dovrebbero definirsi come regolamenti “liberi” o “autorizzati”. Si ritiene in genere che detti regolamenti autorizzati possano disporre su materie coperte da riserva non assoluta di legge; i dubbi di costituzionalità nascono dal fatto che la legge finirebbe per conferire al regolamento una efficacia pari alla legge stessa, con un effetto assai simile alla delegazione legislativa, pur senza le delimitazioni, e quindi le garanzie, di cui all’ art. 76 della Costituzione. Ma in realtà proprio per il fatto che non vi è una riserva assoluta, deve ammettersi la potestà regolamentare, beninteso nei limiti stabiliti dalla legge.
In quanto si tratta di atto amministrativo, non è suscettibile di sindacato da parte della Corte Costituzionale, ma soltanto da parte del giudice ordinario, il quale, ove ne ravvisi la illegittimità per contrasto a norme imperative, e tra queste certamente quella che prevede l’ obbligo di esercitare la delega nei limiti fissati, oltre beninteso quelli discendenti dall’ art. 23 della Costituzione, potrà disapplicare l’ atto amministrativo in questione.
D’ altra parte, per quel che vale, il sindacato di legittimità costituzionale sulle leggi delegate anteriori alla Costituzione deve essere rivolto all’ accertamento dell’ esistenza della delega legislativa e della limitazione posta al Governo, ed insita nella delega, di mantenersi entro i confini della medesima, in riferimento peraltro non alle norme dettate in materia dalla Costituzione, bensì ai principi generalmente validi in tutti gli ordinamenti in cui viga la divisione dei poteri (sentenze della Corte Cost. n. 37 del 26 gennaio 1957, n. 47 del 7 giugno 1962, n. 2 del 10 gennaio 1966).
Ma in realtà il contrasto con la norma costituzionale di un atto formalmente e sostanzialmente amministrativo, ancorché a contenuto normativo per le esposte ragioni, si risolve in un vizio di legittimità per violazione di legge, e, se accertato dal giudice ordinario, ne comporta la disapplicazione ai sensi dell’ art. 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. E e dell’ art. 4 delle disp. sulla legge in generale (Cass. S.U. 15 gennaio 1953 n. 108, S.U. 28 giugno 1966 n. 1673, 24 luglio 1971 n. 2479, 27 febbraio 1976 n. 633, 6 giugno 1985 n. 3361, 3 febbraio 1989 n. 685).
È questa la ragione per la quale, come del resto ha affermato il tribunale nella motivazione della impugnata sentenza, si deve esaminare la legittimità del citato decreto in relazione alla delimitazione dei poteri del ministro contenuti nell’ atto di delega, cioè nel cit. D.Lgs.C.p.S. n. 708 del 1947: individuare ulteriori categorie di lavoratori dello spettacolo da includere nella previsione dell’ obbligo contributivo a favore dell’ E.N.P.A.L.S.. Ed invero solo entro tali limiti il provvedimento amministrativo realizza la volontà legislativa ed attua la delega, poiché ogni altro provvedimento, che risultasse adottato per casi diversi da quelli voluti dal legislatore, risolvendosi in un indebito esercizio di una potestà normativa, risulterebbe illegittimo e tale da dover essere disapplicato. Si tratterebbe di un atto regolamentare emanato senza la esistenza del relativo potere, e di un potere esercitato oltre i limiti per i quali era stato attribuito dalla legge; fatto tanto piè illegittimo in quanto attinente non ad una mera funzione organizzatoria, ma che determina il sorgere di diritti soggettivi e di correlativi obblighi giuridici suscettibili di essere fatti valere con azione giudiziaria.
La questione presenta caratteri di particolare complessità, trattandosi di individuare una categoria, quella dei lavoratori dello spettacolo, in un contesto socio-economico sicuramente notevolmente diverso rispetto a quello avuto di mira dal legislatore del 1947, e nel quale, secondo ogni evidenza e per unanime apprezzamento, si assiste ad una ipertrofia dello spettacolo, che, soprattutto tramite la diffusione della televisione, tende ad insediarsi nelle sedi piè disparate, da quelle giudiziarie alle politico-istituzionali, dalle sanitarie alle sindacali.
Una realtà della quale non è possibile, ai fini che qui interessano, limitarsi a prendere atto, nè è sufficiente il richiamo contenuto nella impugnata sentenza alla “interpretazione evolutiva” da attribuirsi al concetto di spettacolo, posto che una siffatta dilatazione dei campi della rappresentazione soprattutto visiva, condurrebbe, se accolta integralmente, ad una assoluta genericità della delega all’ autorità amministrativa, con la conseguenza che il ministro potrebbe esercitare il suo potere regolamentare nei campi piè disparati, non essendovene alcuno in concreto, con maggiore o minore frequenza, che non risulti direttamente coinvolto in una informazione che, in modo progressivamente crescente, privilegia gli aspetti spettacolari.
La difficoltà di inquadramento della fattispecie è resa maggiore dalla circostanza che la legge delegante, il citato D.Lgs.C.p.S. del 1947, classifica coloro che debbono essere inquadrati nell’ E.N.P.A.L.S. in modo eccezionale rispetto ai principi generali che vigono in questa materia, e cioè considerando la attività da loro svolta e non quella esclusiva o prevalente del datore di lavoro (subordinato od autonomo); ma dalla attività del datore di lavoro non è dato ugualmente prescindere, posto che la legge stessa si riferisce anche a coloro che svolgono attività ausiliarie nell’ ambito della produzione dello spettacolo.
Ne consegue che, pur dovendosi tener conto della evoluzione tecnica (ad es. n. 1947 la televisione non esisteva in Italia), sarà indispensabile attingere ad un concetto di “lavoratore dello spettacolo” che corrisponda all’ uso dei termini da cogliere nella legislazione dello Stato e nella contrattazione collettiva, e che peraltro non si discosti dal senso comunemente attribuito alla parola. Va affermato in via generale, il principio che non qualsiasi attività utilizzata a fini spettacolari o in un contesto proprio di uno spettacolo, è per ciò stesso da definirsi tale, e che, con riferimento alla classificazione dei lavoratori come propriamente addetti allo spettacolo, questa è da accogliere solo con riferimento a coloro che stabilmente, professionalmente, ancorché in compiti ausiliari, sono impiegati per svolgere attività essenzialmente destinate alla realizzazione di spettacoli, da parte di committenti la cui produzione rientra in tale settore.
È appena il caso di osservare che qualsiasi attività è suscettibile di essere utilizzata a fini di spettacolo, basta pensare alla ripresa televisiva degli avvenimenti piè disparati (udienza penale, operazione chirurgica, marcia militare, seduta parlamentare, cerimonia religiosa, ecc.), senza che evidentemente possa neppure sospettarsi che i protagonisti di detti avvenimenti divengano perciò lavoratori, cioè “attori”, di quello spettacolo.
Si impongono, pertanto, la ricerca del significato da attribuire alla espressione adottata dal legislatore “lavoratori dello spettacolo”, nel cit. DPR n. 708 del 1947, e, poi, il controllo di sufficienza e di congruità della motivazione adottata per inquadrare la fattispecie concreta della sfilata di moda nel genere dello spettacolo, e, in particolare, le indossatrici nell’ ambito di quella categoria speciale.
Occorre in particolare tener conto che il citato DPR n. 708 del 1947 individua i soggetti da iscrivere obbligatoriamente all’ ente previdenziale resistente in base alla categoria di appartenenza, cioè, come si è visto, alla tipologia della attività svolta. b) A tal fine occorre subito sottolineare come non ogni accezione del termine “spettacolo” può soccorrere l’ interprete, il quale, evidentemente, non compie una operazione astrattamente semantica, ma mira ad enucleare dal testo legislativo quella che, secondo la nota astrazione metaforica, viene definita la “volontà del legislatore”.
Devono evidentemente escludersi tutte le fattispecie legislativamente previste, nelle quali “spettacolo” equivalga a “pubblica manifestazione”, che rilevi esclusivamente per finalità che sono squisitamente di ordine pubblico, e che attengono alla pubblica incolumità od altri pubblici interessi a questa assimilabili.
Vanno perciò escluse, come irrilevanti, tutte le norme che concernono attività di pubblica sicurezza, e, pertanto, afflusso del pubblico, pericolo di assembramento, di incendio, controlli, ecc., come quelle concernenti le previsioni di carattere tributario. In tal senso basti ricordare a titolo esemplificativo, tra le disposizioni legislative meno recenti: il R.D. 31 maggio 1914 n. 532, regolamento della legge 25 giugno 1913 n. 785 circa la vigilanza sulla produzione delle pellicole cinematografiche; il R.D. 22 ottobre 1914 n. 1238 che approva il regolamento per l’ esecuzione della legge 19 giugno 1913 n. 632 con provvedimenti per combattere l’ alcolismo; il R.D. 15 aprile 1926 n. 718 regolamento sulla protezione e l’ assistenza della maternità e dell’ infanzia, per quanto concerne l’ impiego di “fanciulli” nella preparazione di uno spettacolo cinematografico; il R.D. 17 gennaio 1926 n. 596 art. 218 e 219, regolamento degli agenti di P.S., il R.D. 15 luglio 1926 n. 1369 art. 6 che prevede il pagamento di un diritto demaniale (art. 34 R.D.l. 7 novembre 1925 n. 1950 sul diritto d’ autore) per “ogni rappresentazione od esecuzione di un’ opera adatta a pubblico spettacolo o di un’ opera musicale che si caduta nel pubblico dominio”; il T.U. delle leggi di P.S. 6 novembre 1926 n. 1848, art. 67, che accomuna negli spettacoli le rappresentazioni teatrali, cinematografiche, accademie, feste da ballo e corse di cavalli; tale senso è reso manifesto dal R.D. 21 gennaio 1929 n. 62, art. 129, che riguarda trattenimenti di ipnotismo, fakirismo “che possono recare una perturbazione”; gli artt. 528 e 659 cod. pen.. Tra le norme piè recenti: il DPR 26 ottobre 1972 che disciplina la imposta sugli spettacoli, e concerne anche le scommesse, le case da giuoco, le gare e le competizioni; la legge 31 maggio 1990 n. 128 e la legge 10 febbraio 1989 n. 48 concernenti strutture e materiali da impiegare nella costruzione di “teatri, cinematografi ed altri locali di spettacolo in genere”.
Appaiono invece largamente piè significative le accezioni frequentemente riscontrabili in altre disposizioni di legge, quali la legge 30 aprile 1985 n. 163 sulla nuova disciplina degli interventi dello Stato a favore dello spettacolo, che all’ art. 3 istituisce il Consiglio nazionale dello spettacolo al quale, a parte i rappresentanti pubblici e della P.A., partecipano, tra gli altri, un rappresentante della RAI, uno dell’ ente autonomo di gestione per il cinema, uno dell’ ente teatrale italiano, tre delle relative organizzazioni professionali della produzione cinematografica, teatrale e musicale, due rappresentanti delle organizzazioni professionali delle attività circensi e dello spettacolo viaggiante, ed all’ art. 8 limita appunto a tale genere di imprese l’ applicabilità della legge.
È invece caratteristico l’ uso “amministrativo” del termine spettacolo, diverso da quello fattone dal legislatore; ne è un esempio il decreto 8 settembre 1988 n. 484 sul regolamento di servizio per l’ abbonamento telefonico che all’ art. 3 prevede una durata inferiore all’ anno in occasione di “fiere, spettacoli, mostre, esposizioni, congressi, manifestazioni sportive e simili”. Nell’ uso legislativo del termine in questione appare sufficientemente ricorrente e costante il significato riferibile ad un fine di realizzare professionalmente, e, almeno tendenzialmente, in modo imprenditoriale, una rappresentazione innanzi ad un potenziale pubblico.
D’ altra parte per identificare la volontà del legislatore, negli aspetti evolutivi della interpretazione che la motivazione della impugnata sentenza ha richiamato, non si può prescindere dell’ uso della parola “spettacolo” fatta dalla contrattazione collettiva, trattandosi proprio di identificare la specifica corrispondente categoria dei lavoratori; è ben vero, infatti, che il citato D.Lgs.C.p.S. n. 708 del 1947 sancisce l’ obbligo di iscrizione per categorie di lavoratori (non avendosi riguardo, eccezionalmente, come si è visto, all’ inquadramento del datore di lavoro), ma non può trascurarsi di considerare che la espressione adottata dal legislatore, “lavoratori dello spettacolo”, allorché al penultimo comma dell’ art. 3 ha inteso delimitare la delega al ministro, deve riguardarsi come espressione tecnica, utilizzata specificamente con riferimento ad una certa categoria di prestatori di opera, e non genericamente, proprio per non determinare la illegittimità della delega stessa. In altri termini, tra due possibili interpretazioni, deve ovviamente preferirsi quella che non conduce a ritenere illegittima la norma stessa. E nella individuazione del lavoratore professionalmente appartenente ad una determinata area produttiva, evidentemente non è dato prescindere da come quel settore è individuato nella contrattazione collettiva.
Assume allora valore ermeneutico il fatto che si rinvengano i seguenti contratti nei quali le parti sociali hanno utilizzato la parola “spettacolo” con riferimento alla attività svolta: 1964, CCNL per i professori di orchestra, gli artisti del coro ed i tersicorei scritturati dalle imprese liriche; 18 gennaio 1968, CCNL per gli addetti alle troupes (tecnici e maestranze) dipendenti da case di produzione cinematografica, per tutti i tipi di produzione esclusi i lungometraggi spettacolari ed i telefilms spettacolari a soggetto, che all’ art. 2 prevede tra i documenti proprio il libretto personale E.N.P.A.L.S.; 1 novembre 1971, CCNL per i maestri collaboratori dipendenti dagli enti lirici e sinfonici, che all’ art. 43 prevede la iscrizione all’ E.N.P.A.L.S.; 1971, i diversi CCNL per i professori di orchestra, per gli artisti del coro, per gli impiegati dipendenti dagli enti lirici e sinfonici, che all’ art. 55 prevede la iscrizione all’ E.N.P.A.L.S.; 1971, CCNL per gli operai e gli equiparati dipendenti dagli enti lirici e sinfonici, che all’ art. 30 prevede la iscrizione dei lavoratori all’ E.n.p.a.l.s, 4 ottobre 1971, CCNL per i tersicorei dipendenti dagli enti lirici e sinfonici, che all’ art. 53 prevede la iscrizione all’ E.N.P.A.L.S.; 1973, regolamento dei rapporti tra la R.A.I.-radiotelevizione italiana e gli attori di prosa, rivista ed operetta, che all’ art. 31 ne prevede la iscrizione all’ E.N.P.A.L.S.; 9 luglio 1975, CCNL per gli impiegati ed operai della R.A.I., i cui contratti riguardanti i professori di orchestra e gli artisti del coro prevedono, rispettivamente agli artt. 38 e 33, la iscrizione all’ E.N.P.A.L.S.; 26 giugno 1976, CCNL per i dipendenti da aziende esercenti la distribuzione, importazione, doppiaggio e produzione di films (assunti a tempo indeterminato), sviluppo e stampa di pellicole cinematografiche, teatri di posa, che all’ art. 3 prevede tra i documenti il libretto personale dell’ E.N.P.A.L.S.; 2 aprile 1976, CCNL per gli impiegati e gli operai dipendenti dai teatri stabili; 1977, CCNL per i tecnici scritturati dai teatri stabili e dalle compagnie professionali teatrali di prosa, commedia musicale, rivista ed operetta; 20 febbraio 1975, CCNL per i dipendenti dagli esercizi cinematografici e cinema-teatrali; 1977, CCNL per i professori di orchestra, i coristi scritturati dai teatri stabili e dalle compagnie professionali teatrali di prosa, commedia musicale, rivista ed operetta; 6 ottobre 1980, CCNL per gli impiegati ed operai della R.A.I.; 19 maggio 1980, CCNL per gli addetti alle “troupes” (tecnici e maestranze) per la produzione di films dipendenti da case di produzione cinematografica, che all’ art. 2 prevede il libretto personale E.N.P.A.L.S., 13 febbraio 1980, CCNL per i dipendenti da aziende esercenti la distribuzione, importazione, doppiaggio, produzione, sviluppo e stampa di pellicole cinematografiche, teatri di posa, che all’ art. 3 prevede tra i documenti il libretto personale E.N.P.A.L.S.; 10 dicembre 1977, CCNL per i dipendenti dagli esercizi cinematografici e cinema-teatri, 6 febbraio 1974, CCNL per gli impiegati e gli operai dipendenti dagli esercizi teatrali; 11 febbraio 1981, persino il CCNL per i produttori d’ abbonamenti della R.A.I. che all’ art. 10 ne prevede la iscrizione all’ E.N.P.A.L.S.; 27 gennaio 1984, CCNL per i dipendenti dagli esercizi cinematografici e cinema-teatrali; 14 dicembre 1984, CCNL per l’ industria televisiva e radiofonica; 26 giugno 1985, CCNL per gli impiegati e gli operai dipendenti dagli esercizi teatrali; 9 gennaio 1989, CCNL per gli impiegati e gli operai dipendenti dai teatri stabili e dai teatri gestiti dall’ E.T.I. Come è dato constatare agevolmente da questo vario e pur omogeneo insieme di contratti, si tratta di riferimenti strettamente attinenti alla produzione di spettacoli in senso stretto nel genere tradizionalmente inteso “teatrale”, del quale sia l’ ambiente cinematografico che quello radio-televisivo hanno costituito una amplificazione tecnologica; un ambito, invero, del tutto corrispondente a quello già individuato nelle leggi succitate, secondo la terminologia usata dal legislatore, in particolare per quanto concerne l’ area risultante interessata dalla esaminata legge n. 163 del 1985. E.T.I. Questo per quanto concerne la interpretazione letterale.
Da un punto di vista logico, si deve altresì distinguere la attività svolta a seconda del soggetto che imprenditorialmente la organizza; ed allora va riaffermata la netta partizione tra attività posta in essere in concreto dal singolo lavoratore, subordinato od autonomo, e la attività imprenditoriale alla quale detta attività inerisce e nella quale viene utilizzata.
Ciò risulta particolarmente evidente proprio esaminando le mansioni dei singoli contratti collettivi, inclusi tra questi gli stessi contratti riguardanti i lavoratori dello spettacolo sopramenzionati.
È infatti intuitivo che nè un cassiere, nè un sarto, nè un elettricista o un falegname che lavorano in un teatro, svolgono attività propriamente di spettacolo, ma soltanto una attività che è indispensabile per la realizzazione dello spettacolo, di questa ausiliaria, e che, ovviamente, risente ad esempio, delle peculiarità dell’ ambiente e degli orari del tutto particolari a detto tipo di attività: da ciò la loro specificità. Analoghe considerazioni valgono in qualsiasi campo lavorativo, posto che le finalità proprie della attività imprenditoriale vengono realizzate attraverso una varietà di addetti che è tanto maggiore quanto piè è estesa la attività stessa, includendo in essa aspetti ausiliari piè o meno indispensabili, ma in ogni caso costanti nella realizzazione degli scopi produttivi. Di ciò è ampia conferma in tutta la contrattazione collettiva, anche specificamente per quanto concerne proprio i lavoratori dello spettacolo.
Ed in tal senso la prima indagine da compiersi, evidentemente, è proprio la sussistenza all’ interno della struttura imprenditoriale di addetti destinati non in modo occasionale allo espletamento di quei determinati compiti, perché evidentemente solo in tal caso è configurabile la inclusione di quella particolare attività ausiliaria negli scopi produttivi, con l’ effetto di consentire la qualificazione degli stessi in quel determinato ambito.
Gli esempi sono evidentemente innumerevoli, e vanno dagli addetti alla custodia, a quelli addetti alle mense, dagli addetti ai trasporti a quelli addetti alla pulizia, per ricordare solo i principali.
Evidentemente il fatto che esistano dei contratti collettivi nazionali per gli addetti stabilmente a questi settori di attività lavorativa, non vale a modificare lo inquadramento di un addetto di una singola impresa, ad esempio chimica, sol perché poi in concreto egli svolga attività di mensa, o di pulizia, o di trasporto: il contratto applicabile resterà quello dei lavoratori delle imprese chimiche. Diverso, evidentemente, il caso in cui il servizio mensa, o pulizia, o trasporto, o custodia, non sia svolto da dipendenti dell’ impresa chimica, ma da dipendenti di altra impresa alla quale detta attività sia data in appalto; in tal caso l’ attività produttiva del datore di lavoro è proprio quella in appalto e sarà pertanto questa a qualificare il rapporto di lavoro e non quella dell’ ente destinatario in concreto della prestazione.
Orbene, con riferimento alla questione in esame, appare evidente come innanzi tutto si imponeva una precisa indagine di fatto rivolta a stabilire se, ed in quale misura, e, in particolare, se con specifico riferimento alle indossatrici delle quali si tratta, la società avesse una propria struttura rivolta direttamente allo espletamento delle attività ausiliarie intimamente connesse con lo svolgimento della fase espositiva, ovvero se le stesse fossero demandate ad organismi esterni alla società medesima con un contratto apposito.
E, in caso affermativo, se le indossatrici avevano inserito la loro attività in tali organizzazioni autonome, come lavoratrici subordinate con contratti a termine, ovvero come lavoratrici autonome. Invero gli accertamenti di fatto in parte compiuti, sembrerebbero condurre ad una soluzione negativa della gestione in proprio, non solo per il fatto della commissione della attività in questione ad una agenzia, fatto invero già di per sè non sufficientemente valorizzato nella motivazione della impugnata sentenza ai fini della qualificazione giuridica del rapporto, ma, soprattutto, per il fatto, ancora piè significativo, che detta attività riguardava non la sola società ricorrente, ma contemporaneamente piè società del settore.
È intuitivo come la illuminazione, l’ arredamento, la truccatura, la amplificazione sonora, la presentazione verbale, l’ accompagnamento musicale, ed altre attività similari che si svolgevano nell’ ambito della sfilata di moda, e che erano indispensabili alla buona riuscita della medesima, nella quale agivano contemporaneamente alcune decine di grandi imprese dell’ abbigliamento, non potevano essere gestiti singolarmente da ognuna di esse separatamente senza ingenerare una inutile e confusa sovrapposizione di compiti, ed una levitazione dei costi, ma unitariamente da una singola organizzazione (appunto, parrebbe, la agenzia menzionata nella motivazione per quanto concerne le indossatrici, o, in ogni caso, altro soggetto distinto e separato gestore della manifestazione).
Appare invero insufficiente la motivazione della impugnata sentenza, nella parte in cui, sul semplice presupposto che “essendosi qualificate le manifestazioni di moda come spettacolo, questo è riconducibile alle case di moda e pertanto su di esse devono gravare i contributi relativi alle indossatrici che vi hanno partecipato”, nè è in alcun modo suffragata da dimostrazione la affermazione che non vi sarebbe stata alcuna “prestazione di opera delle indossatrici presso le Agenzie”. Neppure appare giustificata da adeguata motivazione la asserzione che lo ingaggio delle indossatrici da parte della stessa agenzia fosse un dato privo di rilievo, soprattutto considerato che la retribuzione alle stesse era corrisposta proprio dalla agenzia, con la quale era stata trattata e convenuta, e non direttamente dalle imprese di abbigliamento, sia pure traendone l’ importo da quanto pagato dalle società per lo svolgimento del servizio.
A questo riguardo occorre distinguere, come per qualsiasi altra azienda che svolge un servizio, tra destinatario del servizio stesso, che è il committente, e destinatario della prestazione di lavoro di coloro che sono addetti alla realizzazione del servizio, che è di regola il commissionario.
È invero del tutto normale che una impresa svolgente una attività per una molteplicità di commissionari, contestualmente o successivamente, avvalendosi di proprio personale, subordinato od autonomo, riceva un compenso per l’ espletamento dei compiti assegnati e da tale compenso tragga la retribuzione o gli emolumenti dovuti al personale assunto o ingaggiato. Trattandosi di dipendenti subordinati, si dovrà riconoscere una vera e propria organizzazione imprenditoriale, solo a determinate condizioni (art. 5 lettere E ed F della legge 23 ottobre 1960 n. 1369) consentita dalla legge sulla intermediazione della mano d’ opera; trattandosi invece di lavoratori autonomi (cfr. da ultimo Cass. 8 gennaio 1987 n. 59) potrà eventualmente configurarsi la figura dell’ impresario, ma in ogni caso tutti i rapporti posti in essere saranno riferibili a questo soggetto che ne è il promotore, il gestore, il responsabile. Non diversamente da qualsiasi impresa che gestisce una mensa, le pulizie o la custodia, e che non è destinataria delle utilità delle attività stesse, pur essendo, beninteso, destinataria delle prestazioni di lavoro degli addetti nonché del ricavato del servizio offerto.
Consegue a quanto esposto che, oltre ad essere erroneo qualificare una sfilata di moda come “spettacolo” in senso proprio, atteso che mancano le caratteristiche volute dal legislatore nell’ uso fatto della detta espressione, inoltre ai fini dell’ inquadramento contributivo degli addetti, ed in particolare delle indossatrici, occorre individuare esattamente il soggetto a favore del quale la prestazione è stata fornita, e ciò utilizzando innanzi tutto i criteri fondamentali della individuazione del soggetto con cui la prestazione di opera è stata convenuta, rispetto alla quale è dovuta, che provvede ad organizzarla, ed a retribuirla. Soggetto che almeno di regola può essere unico, ma che potrebbe anche non essere tale: si ponga mente infatti alla possibilità che le società imprenditoriali di abbigliamento siano invitate a partecipare ad una sfilata di moda organizzata da un ente (ad es. ente Fiera), che la organizzazione della manifestazione sia attribuita da tale ente ad una società organizzatrice, che questa a sua volta, limitatamente a quanto concerne le indossatrici, si rivolga alle molteplici agenzie per il reclutamento (cfr. Cass. 12 giugno 1990 n. 6151).
Non è chi non veda come questa fattispecie risulta del tutto diversa da quella corrispondente ad una sfilata di moda organizzata da una singola società per la presentazione di propri prodotti, utilizzando all’ uopo personale, subordinato od autonomo, ingaggiato direttamente o tramite agenzia.
Del tutto fuorviante, poi, appare ogni riferimento agli aspetti “artistici” della produzione sartoriale, ovvero della presentazione dei prodotti da parte delle indossatrici: nessuno dubiterebbe dell’ inquadramento nella attività metalmeccanica di un disegnatore di carrozzeria della Fiat, e, per converso, della non appartenenza alla produzione cinematografica o teatrale, ma a quella pubblicitaria, di ogni ripresa destinata a tale mercato.
Beninteso che alcune fattispecie appartengono intrinsecamente al mondo dello spettacolo, e non sono suscettibili di una diversa qualificazione soltanto perché utilizzate a fini ulteriori e diversi; si pensi ad una recita teatrale, voluta, organizzata, realizzata da un ente provinciale del turismo a fini di promozione della immagine territoriale locale, che, certo, non per questo fine ulteriore perderebbe il suo carattere peculiare, con tutte le conseguenze in ordine all’ inquadramento dei diversi addetti.
Altrettanto vale per la esecuzione di un brano musicale da parte di un artista, che integra una attività intrinsecamente artistica, indipendentemente dal contesto e dai fini di utilizzazione, e che pertanto, in quanto tale, non è in nessun caso suscettibile di un diverso inquadramento.
A questo riguardo si deve ricordare come nei contratti dei professori di orchestra, dei coristi e delle compagnie di prosa, commedia, ecc, sono previsti compensi extra per le riprese televisive; ma la previsione corrisponde esclusivamente ad una maggiore gravosità della prestazione (identificabile in un maggior rischio, nelle particolari esigenze, ecc.) senza che implichi in alcun modo una trasformazione della attività da musicale in televisiva, o, a seconda delle utilizzazioni, in pubblicitaria, didattica, ecc.
Per contro, non ogni utilizzazione di aspetti singoli o parziali propri di uno spettacolo (quale ad esempio l’ interpretazione di un singolo brano musicale o teatrale in un contesto diverso) è suscettibile di imprimere il proprio carattere ad una manifestazione complessivamente di natura diversa; in un caso siffatto se gli esecutori del singolo brano non perdono evidentemente il carattere che è proprio della loro attività, la manifestazione mantiene il suo carattere peculiare (industriale, commerciale, turistico, ecc.) e risulterà evidente in tal caso che lo “spettacolo” è stato utilizzato a fini diversi, che non sono quelli suoi propri: ciò sarà rilevante, ad esempio, per quanto concerne l’ inquadramento dei tecnici ausiliari, i quali, se appartenenti professionalmente al settore merceologico dell’ organizzatore (pubblicità, turismo, industria, ecc.), non subiranno certamente un diverso inquadramento per effetto di una inesistente vis attractiva della natura artistica del prodotto specifico utilizzato; è infatti evidente che l’ elettricista di una industria utilizzato dal datore di lavoro per una rappresentazione destinata ai lavoratori od ai clienti, non diventa per ciò soltanto un lavoratore dello spettacolo.
Per mera completezza, non può sottacersi che, almeno eccezionalmente, qualsiasi aspetto della vita quotidiana, per qualche particolarità o in un contesto specifico, è suscettibile di essere utilizzato in senso stretto come spettacolo, ma si tratta di eccezioni che non inficiano la regola, e che, manifestamente esulano dalla fattispecie in esame, nella quale non si versava nella “esibizione” di una famosa indossatrice o in una “rappresentatività”, come avverrebbe nel caso che la sfilata di moda fosse parte della produzione di un film.
Ed allora è possibile ipotizzare rispetto alle sfilate suddette alcune maniere del tutto diverse di configurarsi delle medesime, rispetto alle quali è poi compito del giudice di merito, sulla base degli accertamenti compiuti, provvedere all’ inquadramento: 1) sfilata organizzata, gestita e realizzata da una impresa di abbigliamento con propri mezzi e personale (anche autonomo): l’ aspetto spettacolare è meramente strumentale rispetto al fine commerciale, che è propriamente quello di collocare i prodotti presso il pubblico, costituito da compratori e tra il quale è interesse dell’ organizzatore che intervengano anche personalità note, per il conseguente effetto pubblicitario indiretto che ne ricavano i prodotti; questa fattispecie esula indiscutibilmente dall’ ambito dello spettacolo. 2) sfilata organizzata da un ente che si identifica con i produttori o che li rappresenta, e che eventualmente inserisce nella manifestazione, anche aspetti propriamente spettacolari (ad es. un celebre cantante, attore, ecc.); anche in questo caso occorre distinguere il carattere complessivo della manifestazione, che rimane finalizzato alla promozione (anche internazionale) di un certo genere di moda, e che ha pertanto finalità squisitamente commerciale, da alcuni aspetti di intrattenimento, particolari e peculiari, che possono anche inerire al mondo tradizionalmente dello spettacolo e che, beninteso, restano tali, senza peraltro alcuna vis attrattiva rispetto al carattere generale della manifestazione e delle attività di quest’ ultima peculiari, tra le quali innegabilmente rientra quella realizzata dalle indossatrici. 3) sfilata organizzata da un ente diverso dai produttori, per scopi propri, diversi (ad es. turistici, di rappresentanza, ecc.) da quelli commerciali perseguiti dai produttori partecipanti. In questo caso la sfilata di moda può svolgersi come unica manifestazione o anche inserirsi come elemento di importanza prevalente o semplicemente di contorno, rispetto ad altri aspetti; è intesa, come uno spettacolo offerto ai propri invitati dall’ ente organizzatore, ma non certo dalle case di moda che vi partecipano, le quali perseguono esclusivamente una finalità, sulla ipotesi considerata, prevalentemente indiretta, che è commerciale, pubblicitaria, ecc.: evidentemente gli abiti non sono da loro confezionati per dare spettacolo, ma le case di moda utilizzano in tale forma la presentazione degli abiti, per promuoverne in futuro la vendita; in questa ipotesi sembra doversi distinguere tra il rapporto esistente tra organizzatore della manifestazione e personale (autonomo e subordinato) assunto (o scritturato) all’ uopo, ed il rapporto esistente tra case di moda ed organizzatori della manifestazione. È, infatti, evidentissimo che le finalità perseguite in ciascun rapporto sono completamente diverse: gli organizzatori mirano a realizzare i propri scopi particolari, rispetto ai quali la sfilata di moda è anche configurabile come spettacolo offerto ai partecipanti; diversamente i produttori di modelli di abbigliamento, anche in questo caso, non hanno altro scopo che quello promozionale e pubblicitario, che è evidentemente complementare rispetto a quello commerciale. Non è chi non veda, in una fattispecie di tal genere, come divenga decisivo stabilire quale sia stata effettivamente la organizzazione che ha provveduto ad assumere od ingaggiare il personale destinato a realizzare la sfilata: se si tratta di organizzazione professionalmente rivolta alla commercializzazione dei prodotti della moda, si tratterà di rapporti da inquadrare in questo ambito, ancorché utilizzati da altri soggetti “anche” come spettacolo. Se, invece il rapporto con tale personale viene instaurato proprio dalla organizzazione che è estranea alla catena produttiva-commerciale, e tale organizzazione presenta la caratteristica di produrre professionalmente, almeno con carattere di prevalenza, ciò che nella esaminata accezione può definirsi “spettacolo”, allora, e solo in tale del tutto delimitata ipotesi, da ritenersi del tutto marginale rispetto alla normale configurazione di questa attività, anche il personale destinato a realizzare una sfilata di moda, e tra questo le indossatrici, potrà essere inquadrato previdenzialmente tra “i lavoratori dello spettacolo”. 4) unicamente per completezza espositiva, va segnalato altresì il caso della sfilata di moda che per costituire la “rappresentazione” di siffatta attività (ad esempio in quanto inserita come scena di una pellicola cinematografica), esula da ogni finalità produttiva del settore dell’ abbigliamento, e potrebbe qualificarsi come appartenente allo spettacolo; con l’ avvertenza indispensabile, peraltro, che anche in questo caso (come si è visto sub 3), qualora la sfilata non riguardasse una casa di moda fittizia, ma una ben precisa ed individuata, e, beninteso fosse organizzata con personale e mezzi della azienda di moda, ben sarebbe possibile sulla base dell’ accertamento di questi e di altri elementi di fatto concordanti, ritenere comunque la sfilata di moda come attività autonoma distinta dalla produzione dello spettacolo nel quale è stata inserita, posto che comunque l’ imprenditore nella organizzazione della medesima persegue propri fini del tutto distinti ed indipendenti da quelli dello spettacolo, ancorché di quello poi in definitiva si serva per perseguirne o incrementarne la realizzazione. c) Alla stregua di quanto esposto, fondate appaiono in particolare le censure che attengono alla insufficienza ed alla contraddittorietà della motivazione della impugnata sentenza.
Invero, non si è tenuto conto del fatto che il termine spettacolo ha un suo peculiare significato, nel contesto in cui è stato usato dal legislatore, e cioè congiuntamente con la parola “lavoratori dello”, che non consente di equipararlo al significato di “manifestazione pubblica”, e tanto meno a quello di “manifestazione spettacolare” o con caratteri di spettacolarità e neppure inserita in un contesto di spettacolo: appare sufficientemente sicuro che il legislatore intendesse riferirsi a quelle categorie storicamente tradizionali, che pur hanno avuto un ampliamento per effetto di evoluzione tecnologica, dovendosi in esse includere la cinematografia e la televisione (la prima a rappresentazione ripetuta e differita, la seconda addirittura presso il domicilio dei destinatari), dovendo ritenersi del tutto marginale il pubblico presente nei teatri di registrazione, ed anzi, per certi aspetti, esso stesso elemento dello spettacolo offerto agli spettatori a distanza.
Non vi è coincidenza necessaria tra spettacolarità e promozione commerciale; oltre un certo grado di interesse ed una certa misura di richiamo, la prima può impedire l’ altra, distogliendo l’ interesse dell’ obiettivo che si intende raggiungere in modo primario. Se lo spettacolo può essere adibito a forma di promozione, e la stessa rappresentazione pubblicitaria può assumere forme del tutto spettacolari (soprattutto con riguardo a particolari contesti di diffusione), concettualmente si tratta di categorie non suscettibili di confusione, che mantengono inalterate le caratteristiche determinative.
A questo riguardo può condurre ad una maggiore chiarezza sistematica, ricordare come di recente sia stata realizzata una pellicola cinematografica destinata al pubblico anche televisivo, formata esclusivamente con un accorto montaggio di parti di cortometraggi televisivi e cinematografici destinati in origine alla pubblicità; orbene non è chi non veda che i singoli componenti utilizzati per formare tale pellicola (ed ovviamente i lavoratori ad essi addetti), non divengono per ciò soltanto “spettacolo” (e, correlativamente, lavoratori di questo settore). Peraltro, è del pari chiaro che la pellicola risultante da tale montaggio, non avendo affatto come destinazione la pubblicità, ma essendo rivolta proprio a fare “spettacolo”, ne costituisce un esempio, e tutti i lavoratori che hanno professionalmente concorso a creare questo prodotto (nuovo rispetto alle componenti, e pertanto dalla fase di montaggio in poi), sono perciò lavoratori dello spettacolo.
Da tutte queste premesse si evince, indubbiamente, che una interpretazione della norma che movesse dalla coincidenza tra spettacolo e spettacolarità, o tra spettacolo e disparati oggetti della rappresentazione, in una società a sviluppo ipertrofico di ogni forma di informazione e rappresentazione, condurrebbe ad una così lata estensione del significato della legge di delegazione, da condurre inevitabilmente ad una illegittimità della delega regolamentare, atteso che l’ autorità amministrativa diverrebbe titolare di un potere di estensione della normativa che regola la contribuzione E.N.P.A.L.S., per i piè disparati tipi di attività e di lavoratori.
È in questo senso netta la distinzione tra disciplina legislativa (quale quella specificamente adottata ad esempio per i calciatori con la legge 14 giugno 1973 n. 366, o per i dipendenti dalle case da gioco con la legge 29 novembre 1952 n. 2388) e integrazione regolamentare delegata ottenuta con atto sostanzialmente amministrativo, ancorché “normativo” o di normazione secondaria.
Mentre la prima è suscettibile, per i fini generali suoi propri e con l’ efficacia intrinseca dell’ atto legislativo, di inquadrare nella previdenza dell’ E.N.P.A.L.S., come spettacolo, anche elementi disparati, incontrando soltanto i consueti limiti della norma costituzionale, e quindi ben potrebbe includere anche le sfilate di moda nella previsione legislativa, non così il regolamento amministrativo, il quale ripete la sua legittimità dal provvedimento legislativo di autorizzazione, se ed in quanto sufficientemente specifico, e che nel caso in esame era circoscritto ai lavoratori dello spettacolo tecnicamente inteso.
Deve, pertanto, ritenersi che la dicitura “lavoratori dello spettacolo”, contenuta nel citato DPR n. 708 del 1947, va riferita non a qualsiasi forma di manifestazione con il concorso pubblico, ma esclusivamente a quelle che propriamente hanno il fine di rappresentare ed interpretare un testo letterario o musicale, con personale abilità degli interpreti, rivolta a provocare il divertimento, inteso in senso culturalmente ampio, degli spettatori.
Inoltre la motivazione non sembra aver tenuto conto del fatto che proprio la circostanza che gli emolumenti delle indossatrici fossero eventualmente corrisposti direttamente dalle società produttrici di moda, non escludeva l’ inquadramento a fini previdenziali in quella che è l’ attività incontrovertibilmente principale e prevalente posta in essere dalle aziende.
D’ altra parte la circostanza che nel mondo dello spettacolo si ricorra tradizionalmente agli ingaggi degli artisti ricorrendo alle agenzie, che trova una giustificazione nelle varietà e brevità degli impegni e del loro susseguirsi in un ambito spaziale potenzialmente assai ampio, ha probabilmente indotto il legislatore a ricorrere ad una classificazione a fini contributivi che prescinda dalla classificazione dell’ imprenditore, ed abbia invece riguardo alla attività intrinsecamente svolta: un tempo erano tradizionali in questo settore le figure rispettivamente del capo-comico, dell’ impresario con i quali intercorrevano i rapporti degli artisti e dei lavoratori del teatro. Tuttavia non basta certo la circostanza che le indossatrici vengano assunte tramite agenzia, ad identificare e consentire di qualificare tale attività come lavoro propriamente dello spettacolo, essendo il fenomeno delle agenzie di intermediazione, di impiego assai generalizzato e nei campi piè diversi (fotografia, traduzione simultanea, giornalismo, trasporti, ecc.).
Il criterio di individuazione del settore dello spettacolo deve essere già inteso in modo sufficientemente delimitato, alla stregua dei richiamati elementi di carattere letterale desumibili dalla normazione, una ulteriore e ancora piè precisa delimitazione sussiste con riguardo al potere di regolamento che non concerne qualsiasi attività, ma soltanto quelle svolte da coloro che propriamente possono qualificarsi “lavoratori dello spettacolo”.
Nè, infine, appare sufficiente la motivazione che individua il soggetto tenuto alla corresponsione della contribuzione in esame, sulla base della mera affermazione che destinatarie delle attività sarebbero state le case di moda; una siffatta affermazione se appare pregnante, in linea di massima, con riferimento alla qualificazione del tipo di attività, potendo eventualmente risultare indeterminabile quella di una agenzia che ben può intermediare personale di lavoro autonomo nei campi, come si è visto, piè disparati, per contro è del tutto insufficiente con riguardo alla individuazione del soggetto tenuto alla contribuzione, non individuando nella fattispecie con esattezza nè il datore di lavoro, nè, se del caso, il parametro retributivo, e, correlativamente, l’ obbligo contributivo e la sua entità. Tale impostazione trascura del tutto il dato, invero di preminente significato, che la assunzione e la retribuzione avvenivano in modo diretto da parte di un altro soggetto (l’ agenzia), e che, inoltre, la attività delle indossatrici era utilizzata non esclusivamente dalla società ricorrente, ma (in modo promiscuo ed indeterminato nella proporzione, nè è precisato il criterio di ripartizione degli obblighi conseguenti) da numerosissime case espositive. Al fine di individuare alcuni criteri sufficientemente attendibili di ricostruzione probatoria della fattispecie, è invero intuitivo che una manifestazione così complessa e prolungata come quella in esame, ha bisogno, specificamente per quanto attiene alle sfilate, di tutto un insieme di altri lavoratori ausiliari (truccatori, elettricisti, falegnami, tappezzieri, arredatori, decoratori, impiantisti, ecc.) dei quali sarebbe stato significativo stabilire le modalità di retribuzione, al fine di trarne una indicazione sul soggetto giuridicamente responsabile: anche tale accertamento è stato del tutto pretermesso.
Con riguardo proprio ai lavoratori ausiliari, invero, la giurisprudenza di questo Supremo Collegio (sent. 17 ottobre 1978 n. 4659, 26 gennaio 1980 n. 624, 15 luglio 1983 n. 4856, 22 aprile 1986 n. 2842, 18 marzo 1987 n. 2747, 27 ottobre 1988 n. 5841) ha, da tempo e senza incertezze, riaffermato che per l’ inquadramento dei lavoratori, sia a fini contrattuali che previdenziali, occorre avere riguardo alla attività svolta dall’ imprenditore, e, in caso di attività promiscue, quella che risulta prevalente, o primaria, senza tener conto delle altre che siano secondarie o in rapporto di mera complementarità con quella da definirsi principale, salvo che non si tratti di attività plurime, tra loro distinte, ed ognuna con carattere organizzativo autonomo.
Non è infatti revocabile in dubbio che, data la estrema varietà di compiti e di mansioni, svolti soprattutto in aziende di grandi dimensioni, rientrano nell’ unico rapporto contrattuale anche mansioni intrinsecamente di contenuto assai diverso da quello che è l’ oggetto principale dell’ attività imprenditoriale alla quale ineriscono; si pensi all’ elettricista del teatro, certamente non soggetto al contratto dei dipendenti delle imprese elettromeccaniche, o al truccatore di una impresa produttrice di inserti pubblicitari, al quale non si applicherà ovviamente il contratto dei dipendenti dei teatri o delle imprese cinematografiche che pure specificamente prevengono tali mansioni. Ciò per quanto concerne tutto il vario configurarsi degli addetti alle attività ausiliarie.
Specificamente per quanto concerne le indossatrici, da tutto quanto esposto, discende: la estensione dell’ obbligo della contribuzione all’ E.N.P.A.L.S. per le medesime, deve ritenersi illegittimo, per eccesso di delega, se riferito indiscriminatamente a tutte le esercenti questa attività, non trattandosi di una attività intrinsecamente rivolta a produrre uno spettacolo. Inoltre detta attività non è correttamente inquadrabile indipendentemente dalla attività propria del datore di lavoro o del committente; soltanto in via del tutto eccezionale risulterebbe legittimo un inquadramento nell’ ambito dello spettacolo, purché limitatamente a quei rapporti instaurati da soggetti diversi dai produttori di modelli di abbigliamento, con finalità proprie e caratteristiche della produzione dello spettacolo.
Conseguono a quanto esposto l’ accoglimento per quanto di ragione del ricorso, la cassazione della impugnata sentenza ed in rinvio per nuovo esame al Tribunale di Como, il quale, nel riesaminare il gravame, darà applicazione agli anzidetti principi e provvederà altresì sulle spese del procedimento di cassazione.

P.Q.M

La Corte accoglie per quanto di ragione il ricorso, cassa la impugnata sentenza e rinvia al Tribunale di Como che provvederà anche sulle spese del procedimento di cassazione.
Così deciso nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione, il 3 dicembre 1991.


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