Licenziamento disciplinare della lavoratrice madre: insufficiente la giusta causa, per la Cassazione è necessaria la colpa grave | ADLABOR

Illegittimo il licenziamento disciplinare della lavoratrice madre per giusta causa:  la Cassazione, con  sentenza n. 2004 del 26 gennaio 2017, precisa che deve sussistere la colpa grave, in quanto la giusta causa non è sufficiente.

L’articolo 54 del D.lgs. n 151/2001 prevede a favore della lavoratrice-madre una tutela rafforzata all’interno del rapporto di lavoro, in attuazione del principio costituzionale di cui all’art. 37 della Costituzione e della difesa della maternità.

In particolare, l’articolo 54 del d.lgs.  n. 151/2001 stabilisce un generale divieto di licenziamento delle lavoratrici madri dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino, la cui violazione viene sanzionata con la nullità del recesso, e quindi in caso di impugnazione giudiziale proposta dalla lavoratrice-madre licenziata, con l’ordine da parte del Giudice di reintegra nel posto di lavoro e la condanna del datore di lavoro  al risarcimento delle retribuzioni non percepite dal momento del recesso alla effettiva reintegrazione

Inoltre l’inosservanza delle disposizioni in tema di divieto della lavoratrice madre è punita anche con una sanzione amministrativa.

Il Legislatore al comma 3 dell’art. 54 D.lgs. 151/2001 ha poi previsto delle deroghe specifiche al divieto di licenziamento della lavoratrice-madre, stabilendo che non va applicato nel caso:

“… a) di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;

  1. b) di cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta;
  2. c) di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine;
  3. d) di esito negativo della prova; resta fermo il divieto di discriminazione di cui all’articolo 4 della legge 10 aprile 1991, n. 125, e successive modificazioni. ..”

Ma cosa si intende e quale significato, sotto il profilo giuslavoristico, va attribuito al termine “colpa grave”, che è il presupposto indicato dal Legislatore come indispensabile per procedere in modo legittimo al licenziamento di natura disciplinare della lavoratrice-madre?

La Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 2004 del 26 gennaio 2017 ha fornito alcune precisazioni sul concetto di “colpa grave” in tema di licenziamento della lavoratrice madre, ribadendo un proprio orientamento giurisprudenziale già enucleato in una pronuncia del 2011.

Nella fattispecie, che è stata oggetto del recente vaglio della Cassazione, una lavoratrice in stato di gravidanza appena reintegrata sul posto di lavoro a seguito di una pronuncia da parte del Tribunale del Lavoro, veniva trasferita in un diverso ufficio dell’azienda nel quale però la dipendente non si presentava per un lungo periodo senza addurre alcuna valida giustificazione. Il datore di lavoro attivava quindi nei confronti della lavoratrice assente un procedimento disciplinare per prolungata assenza ingiustificata dal posto di lavoro, al termine del quale la dipendente veniva licenziata per giusta causa.

Secondo il datore di lavoro la condotta posta in essere dalla lavoratrice era riconducibile ad un’ipotesi espressamente prevista dal CCNL applicabile alla fattispecie, che sanzionava con il licenziamento per giusta causa “l’assenza arbitraria dal servizio superiore a sessanta giorni lavorativi consecutivi“, e che tale condotta di persistente e ingiustificato rifiuto della prestazione, avuto anche riguardo alla circostanza che la lavoratrice (che si trovava in stato di gravidanza), non si era neppure presentata al momento delle formalità di ripristino del rapporto per rappresentare le proprie particolari esigenze personali e familiari, integrava la fattispecie della colpa grave stabilita dal Decreto Legislativo n. 151 del 2001, articolo 54, comma 3, lettera a), quale causa di esclusione del divieto di licenziamento.

La Lavoratrice impugnava il licenziamento e proponeva ricorso in sede giudiziaria, ma sia il Tribunale sia la Corte d’Appello confermavano la legittimità del recesso.

In particolare, il giudice di appello riteneva sussistente nella fattispecie una colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro, ai sensi del D.lgs. n. 151 /2001, articolo 54, comma 3, lettera a), essenzialmente, per ininterrotta e ingiustificata assenza dal lavoro, presso la nuova destinazione, dal 26/3/2012 all’11/6/2012,  stante l’espressa previsione dell’inadempimento contestato alla lavoratrice nell’ipotesi prevista dal CCNL, che sanziona con il licenziamento senza preavviso “l’assenza arbitraria dal servizio superiore ai sessanta giorni lavorativi consecutivi”.

La lavoratrice-madre proponeva ricorso avanti alla Corte di Cassazione, la quale con sentenza n. 2004 del 26 gennaio 2017, ribadendo un principio già espresso nel 2011 con la sentenza n. 19912, ha affermato che l’art. 54 del decreto legislativo n. 151/2001 postula che per il recesso non è sufficiente la giusta causa ma occorre un qualcosa di più rappresentato dalla “colpa grave”, e non essendo quindi sufficiente una giusta causa di licenziamento prevista nel CCNL applicabile, come ad esempio nel caso di specie  una prolungata assenza ingiustificata.

Analizzando la decisione della Cassazione è possibile comprendere come, a detta Suprema Corte, il giudice di appello non si sarebbe conformato al principio di diritto, per il quale “il divieto di licenziamento della lavoratrice madre è reso inoperante, ai sensi del Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151, articolo 3, lettera a), quando ricorra la colpa grave della lavoratrice, che non può ritenersi integrata dalla sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, ovvero di una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, essendo invece necessario – in conformità a quanto stabilito nella sentenza della Corte costituzionale n. 61 del 1991 – verificare se sussista quella colpa specificamente prevista dalla suddetta norma e diversa, per l’indicato connotato di gravità, da quella prevista dalla disciplina pattizia per i generici casi d’inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto. L’accertamento e la valutazione in concreto della prospettata colpa grave si risolve in un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, come tale non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione logicamente congrua e giuridicamente immune da vizi“.

Secondo il Giudice di legittimità, è quindi onere del giudice di merito, al fine di stabilire la sussistenza di una colpa grave, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro della lavoratrice madre, effettuare un’ampia ricostruzione fattuale del caso concreto e vagliare la vicenda espulsiva nella pluralità dei suoi diversi componenti.

Tale più esteso, articolato e completo ambito di indagine sarebbe conseguenza necessaria del carattere autonomo della fattispecie in esame e della sua peculiarità, in quanto la colpa grave, che giustifica la risoluzione del rapporto con la lavoratrice-madre, è quella della donna che si trova in una fase di oggettivo rilievo nella sua esistenza, con possibili ripercussioni su piani diversi ed eventualmente concorrenti (personale e psicologico, familiare, organizzativo).

La sentenza in esame, pur concedendo qualcosa sotto il profilo della certezza del diritto e rendendo indubbiamente ancor più soggetti ad una pericolosa alea i licenziamenti disciplinari delle lavoratrici-madri, dato che svincola il concetto di colpa grave da quello di giusta causa prevista nei CCNL, ancorandolo ad una valutazione analitica delle condotte  che hanno condotta ad un licenziamento e delle circostanze accessorie al recesso, tuttavia si pone a tutela del principio di tutela della maternità sul posto di  lavoro.

Pertanto, ogniqualvolta si ritenga integrata una condotta disciplinarmente rilevante,  da parte di una lavoratrice in gravidanza o che si trova nel primo anno di nascita di suo figlio, sarà opportuno, per il datore di lavoro, effettuare preliminarmente una valutazione ancor più approfondita e rigorosa dei fatti oggetto dell’addebito disciplinare e del loro grado di gravità. Ciò, evidentemente, per evitare di subire una declaratoria di illegittimità del licenziamento, con tutte le note e costose conseguenze che ne derivano, nell’ipotesi in cui non si riscontri nel comportamento addebitato alla dipendente madre un livello di gravità superiore alle condotte che solitamente sono potenzialmente passibili della estrema sanzione disciplinare del licenziamento per giusta causa.

A cura di Francesco Bedon

 

 


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