L’abbigliamento del lavoratore: di lavoro, di protezione e sicurezza, personale

Il tema che affronteremo sembra in apparenza marginale e persino futile, ma in realtà è di notevole importanza nell’ambito della gestione del rapporto di lavoro, tanto da essere stato oggetto sia di disciplina legislativa sia contrattuale collettiva ed aver dato adito a un notevole contenzioso giudiziario.

Con le note seguenti cercheremo di fare il punto della situazione esaminando le problematiche legate al lavaggio degli indumenti di lavoro e di quelli finalizzati alla protezione e sicurezza del lavoratore, quelle legate al tempo necessario per indossare entrambi i tipi di indumenti ed, infine, quelle legate al contenzioso disciplinare, questa volta collegato anche all’abbigliamento personale del lavoratore.

Prima però cerchiamo di capire cosa si intenda esattamente per “indumenti di lavoro”, “indumenti di protezione e sicurezza” e “abbigliamento personale”.

Per i primi due, ci è d’aiuto l’art. 74 del D.Lgs 81/2008.

Gli indumenti di lavoro sono tutti quelli “ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore” (come, ad esempio i camici del personale informatico o le divise del personale di front office degli alberghi)[1]. E’ diritto del datore di lavoro (e, specularmente, dovere del lavoratore) stabilire il tipo di indumento in funzione della mansione.

Gli indumenti di protezione e sicurezza, che il legislatore definisce tecnicamente “dispositivo di protezione individuale” ricomprendono, oltre agli indumenti (come ad esempio le tute ignifughe per i lavoratori esposti a fiamme libere oppure le scarpe con puntale rinforzato e suola antiperforante, per chi lavora nei cantieri edili), anche qualsiasi attrezzatura od accessorio d’abbigliamento destinati ad essere indossati dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro (come ad esempio le cinture di sicurezza per chi opera su ponteggi, od occhiali per saldatori)[2]. Se il datore di lavoro ha l’obbligo di fornirli ai lavoratori in funzione delle mansioni loro affidate (talora tipologia e caratteristiche di questi indumenti sono specificamente precisate da norme di legge), i lavoratori hanno l’obbligo di indossarli, così come espressamente previsto dalle norme di legge[3].

L’abbigliamento personale è invece quello di proprietà del lavoratore che il lavoratore stesso indossa normalmente. Non vi sono norme di legge che definiscano le caratteristiche dell’abbigliamento personale, ma vari contratti collettivi o normative aziendali[4] indicano che esso debba essere rispondere “decoroso e…pulito e in ordine”, “consono all’ambiente di lavoro”, “consoni  al luogo di lavoro e al rispetto dell’utenza” o “che risponda ad esigenze di decoro e buon gusto”.

 

Il lavaggio degli indumenti di lavoro e di protezione e sicurezza del lavoratore

Premesso che per gli indumenti di lavoro e di protezione e sicurezza del lavoratore l’onere per l’acquisto e per la periodica loro sostituzione in funzione dell’usura è a carico del datore di lavoro, si pone la questione a carico di chi sia invece l’onere del  lavaggio (e, aggiungiamo noi, i piccoli interventi di ordinaria manutenzione) di tutti e tre i tipi di indumenti indossati dal lavoratore durante la propria attività lavorativa.

La risposta non può che essere diversa, in funzione del tipo di indumenti

Per quelli che rientrano nel concetto di abbigliamento di lavoro[5], in assenza di specifici accordi collettivi od individuali, il lavaggio è a carico del lavoratore sia nel caso in cui l’abbigliamento abbia la funzione di favorire l’identificazione dell’appartenenza aziendale del lavoratore (“Le uniformi e le divise indossate dagli Agenti della Polizia Municipale non possono ricomprendersi, ai fini del riconoscimento del diritto al lavaggio da parte del datore di lavoro, nel novero dei Dispositivi di Protezione Individuale forniti a determinate categorie di lavoratori per tutelarne la salute durante l’espletamento dell’attività lavorativa, per i quali è stato riconosciuto l’obbligo di lavaggio a carico del datore di lavoro: ai sensi dell’art. 40, comma 1, d.lg. n. 626/1994 (e dell’art…..del D.Lgs. 81/2008)  infatti tali uniformi non possono ritenersi dei D.P.I., giacché non sono indossate ai fini di particolari esigenze di tutela della salute e dell’igiene del dipendente bensì al solo scopo di favorire l’identificazione e l’appartenenza al Corpo[6]), sia se abbia invece la funzione di evitare danni od usura agli abiti personali del lavoratore stesso (“L’obbligo, in capo al datore di lavoro, di procedere al lavaggio periodico della divisa da lavoro -o, in alternativa, di corrispondere al lavoratore il rimborso delle spese all’uopo sostenuto- va escluso laddove, come nella specie, si tratti di indumenti strumentali alla preservazione degli abiti civili dall’ordinaria usura connessa all’espletamento dell’attività lavorativa”[7]). Se l’abbigliamento imposto dal datore di lavoro può essere fatto rientrare nel concetto di “abbigliamento di lavoro”, il relativo costo non può che essere posto a carico del datore stesso: “ L’esistenza, in capo ai dipendenti, di un vincolo – specificamente desumibile dalle disposizioni del c.c.n.l. applicato in azienda nonché dalla prassi aziendale – ad indossare indumenti da lavoro uniformi, ai fini dello svolgimento della prestazione lavorativa, configura l’obbligo di forniture di tali indumenti, con conseguente condanna del datore al risarcimento del danno patrimoniale, rappresentato dal costo aggiuntivo sopportato dal singolo dipendente per detto acquisto.”[8]

Nel caso in cui l’abbigliamento riguardi indumenti finalizzati, anche solo in parte, alla protezione del lavoratore ed alla sua sicurezza e che la Legge ricomprende nel concetto dei “dispositivi di protezione individuale”, non v’è dubbio che essi costituiscono un vero e proprio strumento di lavoro la cui cura e manutenzione ricade sul datore di lavoro, così come espressamente previsto dal T.U. sulla sicurezza del lavoro, che, all’art. 77, comma 4, lett. a) del D.Lgs 81/2008 recita testualmente “Il datore di lavoro…a) mantiene in efficienza i DPI e ne assicura le condizioni d’igiene, mediante la manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie e secondo le eventuali indicazioni fornite dal fabbricante[9]. Ove il lavaggio sia stato effettuato dal lavoratore, questi, per consolidata  giurisprudenza, ha diritto al rimborso delle spese sostenute, anche se la contrattazione collettiva si era espressa in senso contrario: “Mette conto evidenziare, inoltre, che, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, i lavoratori hanno diritto al rimborso delle spese sostenute per la pulizia degli indumenti di protezione, forniti dal datore di lavoro, risultando affetta da nullita’ parziale, per contrasto con norme imperative, la clausola, in senso contrario, del contratto collettivo. Ne consegue che quand’anche la contrattazione collettiva avesse inteso addossare ai lavoratori le spese di lavaggio dei DPI (il che nella specie deve escludersi, perché prevedere che il lavoratore debba avere cura della buona conservazione degli indumenti non significa di per sè che debba provvedere al loro lavaggio), una siffatta previsione, siccome contraria a norme imperative, non potrebbe comunque esonerare il datore di lavoro dall’onere delle spese di cui qui si controverte.[10]

Quanto all’abbigliamento personale, il lavaggio non può non competere che al lavoratore in base ai normali criteri del vivere comune o, raramente, anche in base a normative aziendali[11]. Va però annotato che in caso di invio in trasferta per periodi non brevi, vari datori di lavoro prevedono il rimborso delle spese di lavaggio degli indumenti personali del lavoratore

 

Tempo per indossare gli indumenti di lavoro e quelli di protezione e sicurezza 

Una questione non di poco conto riguarda il tempo necessario per indossare gli indumenti di lavoro e quelli di protezione e sicurezza: va considerato come orario di lavoro (e come tale remunerato) oppure no?

Rammentando subito che il legislatore, all’art. 1 del D.Lgs. 66/2003, ha definito l’orario di lavoro: “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni[12], ma, al tempo stesso la risposta non può che essere articolata.

Così, se è il datore di lavoro a decidere che gli indumenti di lavoro e quelli di protezione e sicurezza vanno tenuti nei locali aziendali e qui indossati e tolti (c.d. “eterodirezione”) -oppure se l’abbigliamento di lavoro e, a maggior ragione, quello di protezione e sicurezza,  non possano che essere indossati sul posto di lavoro per motivi afferenti la necessità che essi debbano rispettare requisiti di pulizia ed igiene, talora addirittura imposti da specifiche norme di legge[13]– , per il maggioritario orientamento giurisprudenziale il tempo necessario alla vestizione e svestizione rientra nell’orario di lavoro, con l’ovvia conseguenza che esso deve essere retribuito: “Nel rapporto di lavoro subordinato, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla direttiva n. 2003/88/CE (Corte di Giustizia UE del 10 settembre 2015 in C-266/14), il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro[14].

Va però doverosamente annotato anche il contrario orientamento, che si basa su un’opposta interpretazione del citato art. 1 del D.Lgs. 66/2003: “Le nuove disposizioni dettate dal Dlgs n. 66/2003 in materia di organizzazione dell’orario di lavoro consentono di escludere che il tempo necessario ad indossare gli abiti di servizio debba essere incluso in quello lavorativo, ciò dal momento che, per effetto dell’articolo 1 del decreto citato, attualmente può considerarsi orario di lavoro esclusivamente il periodo in cui il lavoratore non solo sia fisicamente sul luogo di lavoro, ma sia altresì a disposizione del proprio datore oltre che nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni. Pertanto, il dipendente che per ragioni di igiene debba vestirsi in azienda, pur trovandosi fisicamente sul luogo indicato dal datore ed essendo a disposizione di costui, poiché non propriamente nell’esercizio della sua attività specifica o delle sue mansioni non ha diritto a percepire alcuna retribuzione per il tempo eventualmente dedicato alle operazioni di vestizione e svestizione (cosiddetto tempo tuta)[15].

Nel caso in cui si ritenga che il tempo di vestizione/vestizione sia considerato orario di lavoro dovrà essere remunerato. Già, ma come?

Se il periodo di tempo rientra nel normale orario di lavoro giornaliero, la retribuzione sarà quella ordinaria.

Se, invece, il datore di lavoro richiede che il lavoratore inizi e cessi la propria attività rispettando l’orario normale con indosso gli indumenti di lavoro, il tempo per vestizione e svestizione dovrà essere considerato, salvo che la contrattazione collettiva non abbia disposto altrimenti, come orario di lavoro straordinario e come tale retribuito: “Costituisce straordinario, qualora eccedente le 40 ore settimanali, e va pertanto retribuito, il tempo del lavoro impiegato dagli operai operanti nelle aziende industriali o commerciali di qualunque natura (nella specie metalliche) per indossare la tuta, i dispositivi di protezione individuale presso lo spogliatoio loro assegnato, unitamente a quello impiegato, a fine turno, per compiere le medesime operazioni, nonché il tempo necessario per recarsi dallo spogliatoio di competenza sino all’orologio marcatempo di reparto, ove si registra l’orario di ingresso e uscita dal reparto di assegnazione, qualora sia a essi imposto di presentarsi all’orologio marcatempo con divisa e dispositivi di protezione individuali, da lasciarsi, su ordine del datore di lavoro, in azienda, nonché qualora sia lo stesso datore di lavoro ad assegnare a ciascun dipendente un armadietto ove custodire detti beni all’interno dello spogliatoio[16].

Nel caso in cui, invece, il datore di lavoro o eventuali discipline contrattuali consentono al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa (anche a casa prima di recarsi al lavoro), tale attività deve essere considerata come preparatoria allo svolgimento della prestazione lavorativa, non rientrando pertanto nel concetto di orario di lavoro come definito dalla legge e, di conseguenza, non dovrà essere retribuita[17].

Peraltro non va dimenticato che le divise o gli altri capi d’abbigliamento che il datore di lavoro impone di indossare i propri dipendenti vengono usualmente forniti, gratuitamente, dal datore di lavoro stesso per cui i dipendenti che li ricevono traggono vantaggio economico dal dovere di indossare la divisa perché, contemporaneamente, non devono acquistare né manutenere propri capi d’abbigliamento personale. E per il lavaggio, quando i capi d’abbigliamento non sono anche i dispositivi di protezione individuale, la loro manutenzione non è difforme da quella di qualsiasi altro capo d’abbigliamento per cui i lavoratori non subiscono alcun onere maggiore da dover utilizzare le divise ed anzi ricavano un beneficio dal fatto che detti capi vengono loro forniti gratuitamente.

 

Il contenzioso disciplinare legato all’abbigliamento del lavoratore

Può accadere che il lavoratore si rifiuti di ottemperare a disposizioni del datore di lavoro o derivanti da norme di legge concernenti l’abbigliamento, sia esso di lavoro, sia di protezione e sicurezza, sia, perfino, quello personale.

Se, in via generale, ex secondo comma dell’art. 2104 Cod. civ. il lavoratore ha l’obbligo di osservare le disposizioni del datore di lavoro[18], per quanto riguarda gli indumenti di protezione e sicurezza del lavoratore il D.Lgs. 81/2008 prevede specificamente, agli articoli 20 e 78[19], l’obbligo di ottemperare alle disposizioni datoriali circa il loro corretto uso.

Il mancato rispetto di tale obbligo comporta non solo l’applicazione di sanzioni penali, con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda da 200 a 600 euro[20] ma anche di sanzioni disciplinari, che possono giungere sino al licenziamento: “È legittimo il licenziamento irrogato al dipendente che abbia reiteratamente rifiutato di indossare dispositivi di protezione durante lo svolgimento della prestazione lavorativa, così come previsto dal documento di valutazione dei rischi e da specifica disposizione aziendale”.[21]

Riteniamo che analoghe conseguenze per il lavoratore possano applicarsi anche nella mancata ottemperanza del lavoratore ad indossare indumenti di lavoro che non siano anche indumenti di protezione e sicurezza.

Più problematico è invece l’aspetto della rilevanza dell’abbigliamento strettamente personale del lavoratore ai fini disciplinari.

Può, in effetti, il datore di lavoro legittimamente imporre o vietare al lavoratore di indossare un particolare tipo di indumenti che non siano né di lavoro né di protezione e sicurezza?

Alcuni regolamenti aziendali (negli Stati Uniti sono definiti “Dress Code Standard”) hanno cercato di disciplinare l’argomento, prevedendo, ad esempio che il lavoratore debba indossare un abbigliamento “consono all’ambiente di lavoro”[22] oppure consono “al rispetto dell’utenza”[23], oppure ancora, “decoroso…. pulito e in ordine”, precisando talora che il mancato rispetto delle specifiche disposizioni aziendali costituiscono infrazioni disciplinari[24].

Una datata pronuncia pretorile[25] ha invece ritenuto illecito il comportamento aziendale teso a proibire indumenti ritenuti non consoni, perché “lesivo dei diritti di non discriminazione per motivi di sesso ai sensi degli artt. 3 Cost., 1 L. 903/77 e 4 L. 125/91, nonché sotto il profilo della violazione della dignità e della riservatezza della lavoratrice ex art. 2 Cost.”, con conseguente obbligo del datore di lavoro di risarcire il danno.

Un’altra sentenza risalente, questa volta della Corte di Cassazione, ritenne legittimo l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro in caso di rifiuto del lavoratore di non utilizzare sul posto di lavoro abbigliamento non consono, ma soltanto nel caso in cui tale rifiuto sia ritenuto illegittimo da norme di legge o dalla contrattazione collettiva: “L’adozione generalizzata da parte dei lavoratori di un certo tipo di abbigliamento, coincidente con quello normalmente suggerito dal costume o dalle regole del vivere civile e della buona educazione, non può determinare il sorgere di un uso aziendale di per sè vincolante, il quale peraltro non può estendere la propria efficacia fino a ricomprendere comportamenti che non incidono sull’esplicazione della prestazione lavorativa, salvo i casi eccezionali di espressa previsione di particolari forme di vestiario rese obbligatorie per ragioni produttive o di immagine. Al di fuori di tali ipotesi, in cui il comportamento è imposto da specifiche disposizioni, la libertà di abbigliamento non trova altro limite se non nelle norme giuridiche o nelle regole sociali dalle prime richiamate o presupposte, ovvero in clausole pattizie collettive.[26]

Per la Pretura di Roma il datore di lavoro può emanare legittimamente direttive sulle modalità di comportamento del personale dipendente sul posto di lavoro ed in particolare sul suo abbigliamento, purchè esse siano giustificate soltanto da ragioni di igiene e sicurezza sul posto di lavoro (ad esempio proibendo l’uso di tacchi eccessivamente alti per il personale femminile) oppure produttive o di immagine, in relazione alla natura dell’attività imprenditoriale esercitata e alla clientela cui la stessa si rivolge. In ogni caso tali direttive, che non possono ledere né la dignità nè il decoro della persona, debbono essere sufficientemente precise. In caso contrario, se cioè   dovessero avere un contenuto generico, avrebbero soltanto un carattere di mera raccomandazione non vincolante, per cui la loro inosservanza non costituirebbe comportamento disciplinarmente rilevante.[27]

Se poi l’abbigliamento del lavoratore (quasi sempre della lavoratrice) suscita commenti del datore di lavoro circa la dubbia moralità della lavoratrice stessa, ciò  rischia di qualificare tali apprezzamenti quali “atti di molestia sessuale”, ai sensi dell’art.26, D.Lgs. 198/2006[28].

 

Note conclusive

Come abbiamo evidenziato, l’abbigliamento del lavoratore presenta aspetti di notevole interesse sotto il profilo gestionale.

Per quanto concerne sia gli indumenti di lavoro sia quelli di protezione e sicurezza, non v’è dubbio che tanto il datore di lavoro quanto il lavoratore abbiano dei precisi obblighi: il primo, di fornirli ai lavoratori e di verificare che siano indossati; i secondi, di indossarli, con la conseguenza che il mancato rispetto potrà comportare per entrambi conseguenze di varia natura, anche penale[29], mentre per il lavoratore potranno aggiungersi sanzioni disciplinari, fino al licenziamento[30].

Del tutto diverso invece l’aspetto relativo all’abbigliamento personale del lavoratore. Se da un lato parte della dottrina e della giurisprudenza ritengono che il datore di lavoro possa intervenire solo se previsto da norme pattizie o regolamentari (a tal proposito, sarebbe senz’altro opportuno che le prescrizioni datoriali sull’abbigliamento personale siano comunque contenute nel codice disciplinare aziendale,  come previsto dall’art. 7 della Legge 300/1970[31], ovvero nelle procedure aziendali, non possiamo non rilevare che tali norme, ove esistenti, facciano quasi sempre ricorso a termini molto vaghi quali “consono all’ambiente di lavoro”, “consono al rispetto dell’utenza”, “decoroso”, “formale”, “informale”, “elegante” “sobrio”e persino “stravagante”, cosa che lascia ampi margini di discrezionalità, contribuendo facilmente a determinare l’insorgere di contrasti tra datore di lavoro e lavoratore.

Il problema di fondo è che l’abbigliamento personale segue l’evoluzione dei tempi e dei costumi sociali e quello che nel passato era ritenuto indecoroso o inelegante può diventare alla moda: basti pensare alla minigonna per le donne[32] o ai jeans per gli uomini o, per entrambi i sessi, alle oramai onnipresenti calzature sportive.

L’auspicio è che le situazioni relative all’abbigliamento dei dipendenti trovino soluzione all’interno dell’azienda e non finiscano davanti al giudice il quale, eventualmente chiamato a pronunciarsi, possa trovare il giusto punto d’equilibrio tra il diritto del datore di lavoro a poter disciplinare i comportamenti dei propri lavoratori anche per quanto riguarda il loro abbigliamento personale ed il diritto del lavoratore a veder rispettata la propria libertà.

A cura degli Avv.ti Massimo Goffredo & Vincenzo Meleca

 

[1] D.Lgs. 81/2008, art. 74, comma 2

[2] D.Lgs. 81/2008, art. 74, comma 1

[3] D.Lgs. 81/2008, artt. 20 e 78.

[4] Cfr. solo a mo’ d’esempio: Codice di comportamento dei lavoratori delle farmacie di Lucca, Codice di comportamento dei dipendenti del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, art. 14, comma 3 e Codice di comportamento dei dipendenti dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale e Codice disciplinare del Centro Veneto Servizi,  consultabili rispettivamente su http://www.fofi.it/ordinelu/doc/documento8494888.doc, http://www.lavoro.gov.it/Ministero/AreaTrasparenza/BandiGara/Documents/SCHEMA%20DI%20CODICE%20DI%20COMPORTAMENTO%20DEI%20DIPENDENTI%20DEL%20MINISTERO%20DEL%20LAVORO%20E%20DELLE%20POLTICHE%20SOCIALI.pdf su https://www.inps.it/docallegati/ConcorsiEAvvisi/avvisi/Documents/schema%20definitivo%20di%20Codice%20di%20comportamentoRev18-3-2014.pdf e su http://www.centrovenetoservizi.it/public/file/CodiceDisciplinare.pdf

[5] Cfr. Circolare Ministero lavoro e previdenza sociale 29 aprile 1999, n. 34

[6] Tribunale Catania, 20 maggio 2015,  n. 2268 in Il giuslavorista.it 2015, 26 ottobre

[7] Cassazione civile, sez. lav., 5 marzo 2014,  n. 5176, in it. 2014, 4, I, 1079

[8] Cassazione civile, sez. lav., 29/05/2012,  n. 8531, in Foro it. 2012, 7-8, I, 2056

[9]In un rapporto di lavoro, il lavoratore ha diritto ad abiti di lavoro adeguati, i quali devono essere forniti dal proprio datore di lavoro che deve inoltre mantenere gli abiti da lavoro, sostituirli e tenerli in efficienza, ai sensi degli artt. 2087 c.c. e 32 Cost. Si tratta di obblighi di ordine generale che impongono altresì al datore di lavoro di verificare se, in relazione alle mansioni svolte, sia necessario, in relazione alle dovute precauzioni per la tutela della salute e sicurezza, fornire DPI idonei e sempre puliti”. Cassazione civile, sez. lav., 5 febbraio/2014,  n. 2625, in Diritto & Giustizia 2014, 6 febbraio.    .

[10] Cassazione civile, sez. lav., 30 luglio 2014, n. 17384, in

http://juriswiki.it/provvedimenti/sentenza-corte-di-cassazione-sez-lavoro-17384-2014-it/allegati

[11] Come ad esempio il codice disciplinare dell’Ordine dei Farmacisti della Provincia di Lucca, che, alla voce “Abbigliamento e aspetto” prevede che “Al fine di una presentazione omogenea dell’immagine dell’azienda, li dipendente dovrà indossare un abbigliamento decoroso. L’abbigliamento dovrà essere pulito e in ordine. Le infrazioni alle disposizioni del presente articolo saranno oggetto di provvedimento disciplinare.”

[12] Decreto Legislativo 8 aprile 2003 n.66 – Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, art. 1, comma 2 lett. a). Per la Giurisprudenza comunitaria (Corte Giust. Com. eur., 9 settembre 2003, causa C-151/02, par. 58 ss.).la valutazione se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di lavoro, occorre stabilire “se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera”. Cfr. Cassazione civile, sez. lav., 13 aprile 2015,  n. 7396, in Foro it. 2015, 6, I, 1953

[13] Come, ad esempio, nel settore alimentare, dal Regolamento CE 29 aprile 2004, n.852 “Regolamento sull’igiene dei prodotti alimentari”, Capitolo VIII – Igiene personale: “1. Ogni persona che lavora in locali per il trattamento di alimenti deve mantenere uno standard elevato di pulizia personale ed indossare indumenti adeguati, puliti e, ove necessario, protettivi.

[14] Cassazione civile, sez. lav., 26 gennaio 2016,  n. 1352, in Mass. Giust. Civ. 2016 e Cassazione Sezioni Unite Civili n. 11828 del 16 maggio 2013

[15] Tribunale di Monza, sez. Lavoro, 15 gennaio 2009, n. 28

[16] Tribunale Genova, sez. lav., 27 settembre 2011,  n. 1401, in Guida al diritto 2011, 47, 82

[17] Cassazione Sezioni Unite Civili n. 11828 del 16 maggio 2013, cit. e Cassazione civile, sez. lav., 7 giugno 2012,  n. 9215, in Foro it. 2012, 9, I, 2344.

[18] Cod. civ. art. 2104 – Diligenza del prestatore di lavoro: “[I]. Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale. [II]. Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.

[19] D.Lgs. 81/2008, art. 20 – Obblighi dei lavoratori: “1. Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro. 2. I lavoratori devono in particolare: a) contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro; b) osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale; c) utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto, nonche’ i dispositivi di sicurezza; d) utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione;  (omissis)”   e art. 78 – Obblighi dei lavoratori “1. In ottemperanza a quanto previsto dall’articolo 20, comma 2, lettera h), i lavoratori si sottopongono al programma di formazione e addestramento organizzato dal datore di lavoro nei casi ritenuti necessari ai sensi dell’articolo 77 commi 4, lettera h), e 5. 2. In ottemperanza a quanto previsto dall’articolo 20, comma 2, lettera d), i lavoratori utilizzano i DPI messi a loro disposizione conformemente all’informazione e alla formazione ricevute e all’addestramento eventualmente organizzato ed espletato. (omissis)”.

[20] D.Lgs. 81, art. 59 – Sanzioni per i lavoratori: “ 1. I lavoratori sono puniti: con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda da 200 a 600 euroa) per la violazione degli articoli 20, comma 2, lettere b), c), d), e), f), g), h) ed i), e 43, comma 3, primo periodo; b) con la sanzione amministrativa pecuniaria da 50 a 300 euro per la violazione dell’articolo 20, comma 3.

[21] Cassazione Civile, sez. lav., 12 novembre 2013 n. 25392, in Lav. nella giur. 2014, 181, Cassazione Civile, sez. lav., 5 agosto 2013, n. 18615 e Cassazione civile, sez. lav., 26 gennaio 1994,  n. 774, in Riv. it. dir. lav. 1995, II, 118

[22] Cfr. Codice di comportamento dei dipendenti del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, art. 14, comma 3, cit.

[23] Cfr Codice di comportamento dei dipendenti dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, cit.

[24] Cfr Codice di comportamento dell’Ordine dei Farmacisti della Provincia di Lucca, cit., che prevede espressamente che “Le infrazioni alle disposizioni del presente articolo saranno oggetto di provvedimento disciplinare”. Va altresì accennato che talune aziende, per attenuare l’obbligo di indossare sul posto di lavoro un abbigliamento formale, hanno consentito ai lavoratori di potersi vestire “casual” nella giornata di venerdì. E’ il cosiddetto “Casual Friday“, una tradizione di origine statunitense che in Italia ha dato risultati poco soddisfacenti.

[25] Pretura Milano, 12 gennaio 1995, in Giust. civ. 1995, I, 2267. . Conforme, Pretura Firenze 18 ottobre 1996, in Toscana Giur., 1997, 165

[26] Cassazione civile, sez. lav., 9 aprile 1993,  n. 4307, in Riv. giur. lav. 1994, II, 223. Conforme Tribunale Latina, 19 settembre 1989, in Riv. it. dir. lav. 1990, II, 248 che citiamo per la singolarità del caso: “Integra gli estremi dell’insubordinazione, tale da legittimare il licenziamento per giusta causa, il comportamento del lavoratore invalido che, col pretesto di ripararsi dal freddo e dalla pioggia, dopo aver commesso una serie di infrazioni disciplinari, abbia indossato ripetutamente sul luogo di lavoro, con atteggiamento provocatorio e di aperta sfida alle disposizioni aziendali, un cappello alla messicana e una stella da sceriffo, con serio pregiudizio dell’immagine dell’azienda agli occhi dei clienti e dei fornitori e con gravi effetti sul mantenimento della disciplina aziendale.”

[27] Pretura Roma, 3 dicembre 1998, in Riv. critica dir. lav. 1999, 356

[28] Trib. Milano, 3 novembre 2009, n. 4478 e Corte App. Milano, 20 dicembre 2010, n. 1044, in http://olympus.uniurb.it/images/stories/pdf/20091106_sentenza-4478_trib-milano_greco.pdf. Contra, nel senso che l’invito ad indossare un abbigliamento consono al ruolo ed alle mansioni non costituisce forma di vessazione, Tribunale di Cassino Sez. lavoro, 18 dicembre 2002. L’art. 26 Molestie e molestie sessuali così recita: “1. Sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. 2. Sono, altresì, considerate come discriminazioni le molestie sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. 2-bis. Sono, altresi’, considerati come discriminazione i trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di aver rifiutato i comportamenti di cui ai commi 1 e 2 o di esservisi sottomessi. 3. Gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro dei lavoratori o delle lavoratrici vittime dei comportamenti di cui ai commi 1 e 2 sono nulli se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti medesimi. Sono considerati, altresì, discriminazioni quei trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne.

[29] Per il datore di lavoro, il non aver richiesto l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonche’ delle disposizioni aziendali in materia di uso dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione (D.Lgs. art. 18, co. 1, lett. f), è prevista la sanzione dell’arresto da due a quattro mesi o con l’ammenda da 1.200 a 5.200 euro (D.Lgs. 81/2008, art. 55, co. 5, lett. c). Per il lavoratore, il non utilizzare o l’ utilizzare in modo inappropriato i dispositivi di protezione messi a sua disposizione (D.Lgs. 81/2008, art. 20, co. 2, lett. d), è previsto l’ arresto fino a un mese o con l’ammenda da 200 a 600 euro (D.Lgs. 81/2008, art. 59, co.1)

[30] Cassazione Civile, sez. lav., 12 novembre 2013 n. 25392., 5 agosto 2013, n. 18615 e 26 gennaio 1994,  n. 774, cit.

[31] Rammentiamo che il datore di lavoro ha anche l’onere di affiggere il codice disciplinare in luogo accessibile a tutti i lavoratori e che tale affissione è considerata dalla giurisprudenza quale condizione di validità e procedibilità dell’azione disciplinare.

[32] E’ notizia recente la circolare inviata via email al personale degli uffici comunali di Nieuw West (Comune di Amsterdam) con la quale si invitano le dipendenti a non indossare minigonne o vestiti troppo corti, in quanto ritenuti inappropriati durante il lavoro, anche per non urtare la sensibilità di persone di fede islamica. (da: http://www.corriere.it/esteri/16_marzo_29/sconsigliata-minigonna-comune-fa-infuriare-l-olanda-0eadfb66-f5eb-11e5-a42a-1086cb13ad60.shtml)


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