Comporto – licenziamento – disabili | ADLABOR | ISPER HR Review

Il licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore affetto da disabilità sconta alcune peculiarità derivanti dalle particolari condizioni personali che possono portare a far ritenere il recesso come motivato dalla minore capacità lavorativa. Sia la giurisprudenza comunitaria sia quella italiana si sono pronunziate in argomento tutelando la discriminazione derivante da handicap. In particolare quella italiana richiede, in caso di licenziamento per comporto, che la ragione determinante sia la menomazione fisica del lavoratore aggiungendo che la malattia non deve derivare dall’incompatibilità delle mansioni con lo stato di salute. In ogni caso nel nostro ordinamento ci sono forme di tutela che agevolano il lavoratore disabile nel recupero dell’efficienza fisica.

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L’articolo 2110 del codice civile tutela i lavoratori in caso di infortunio, malattia, gravidanza e puerperio. Il secondo comma dello stesso articolo attribuisce al datore di lavoro il diritto di recedere dal contratto, con riconoscimento del preavviso, decorso un periodo stabilito dalla legge, dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità. I contratti collettivi stabiliscono il periodo oltre il quale il datore di lavoro non è più tenuto a conservare il posto di lavoro al dipendente in infortunio o malattia: il cosiddetto “comporto”. In alcuni casi la contrattazione collettiva prevede regimi distinti in caso di malattia piuttosto che di infortunio privilegiando la protezione, anche in termini di durata, in caso di infortunio. Il comporto si calcola individuando un certo numero di assenze (usualmente computate in giorni o mesi) nell’ambito di un arco temporale predeterminato. Inoltre, alcune tipologie di assenze, ad esempio ricoveri ospedalieri o determinate daparticolari patologie, vengono considerate in modo diverso ai fini del calcolo del numero di giornate utili al superamento del periodo di comporto.

Una particolarità è però quella del comporto in caso di lavoratori disabili i quali potrebbero subire una discriminazione, anche indiretta, nell’applicazione tout court dell’istituto del comporto, in virtù della loro particolare condizione di disabilità. Ciò anche in virtù dei principi espressi dalla direttiva 2000/78 CE, recepita in Italia con il D.lgs. 216/2003, in tema di “Parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro” e sulle discriminazioni di genere.

La questione che si pone è quindi quella se un lavoratore affetto da disabilità debba scontare particolari condizioni ai fini del calcolo del periodo di comporto e se il licenziamento di un lavoratore disabile possa configurare una discriminazione indiretta: ossia quando un trattamento omogeneo produce conseguenze diverse sui gruppi individuati dal legislatore, a causa delle specificità che connotano gli appartenenti ad un certo gruppo.

Sul punto si sono confrontate sia la giurisprudenza comunitaria sia la giurisprudenza italiana.

La sentenza n. 13/05 dell’11 luglio 2006 della Corte di Giustizia aveva specificato che “una persona che e stata licenziata dal suo datore di lavoro esclusivamente a causa di malattia non rientra nel quadro generale stabilito dalla Direttiva 2000/78 per la lotta contro la discriminazione fondata sull’ handicap”.  La pronuncia in questione aveva infine aggiunto che “la malattia in quanto tale non può essere considerata un motivo che si aggiunge a quelli in base ai quali la direttiva 2000/78 vieta qualsiasi discriminazione”.

La Corte di Giustizia Europea ha tuttavia progressivamente mutato il proprio orientamento, aderendo ad un’interpretazione più favorevole al lavoratore disabile affermando, in ordine alla verifica circa la sussistenza di una discriminazione indiretta nel licenziamento per superamento del periodo di comporto, che:  “si deve constatare che un lavoratore disabile è, in linea di principio, maggiormente esposto al rischio di vedersi applicare l’articolo 52, lettera d), …………. rispetto a un lavoratore non disabile. Infatti, rispetto a un lavoratore non disabile, un lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità. Egli è quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e, quindi, di raggiungere i limiti di cui all’articolo 52, lettera d), …….. Risulta, dunque, che la norma di cui a tale disposizione è idonea a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, (v., in tal senso, sentenza dell’11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11, EU:C:2013:222, punto 76)”.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha invece negato la qualificazione di licenziamento discriminatorio in un recesso per superamento di comporto nei confronti di una categoria protetta: “la possibilità di configurare un asserito intento discriminatorio, considerato che la giurisprudenza di questa Corte richiede allo scopo che esso costituisca il motivo unico determinante l’individuazione del lavoratore appartenente alla categoria protetta (ex plurimis: Cass. n. 3986/2015; Cass. n. 17087/11; Cass. n. 6282/11; Cass. n. 16155/09) e che, in ogni caso, di discriminazione può parlarsi solo quando si configuri un trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta (Cass. n. 6575 del 05/04/2016) mentre nella fattispecie qualunque lavoratore sarebbe stato licenziato nella medesima situazione, che costituisce una condizione legittimante di natura generale(Cass. civ. sez. lav., 24.10.2016, n. 21377).

Ed anche una parte della giurisprudenza di merito si è espressa nello stesso senso escludendo l’intento discriminatorio poiché questo si dovrebbe configurare come unico motivo determinante del licenziamento nell’individuazione del lavoratore appartenente alla categoria protetta (Tribunale di Parma decreto 17 agosto 2018…). Infatti “Il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una ipotesi di risoluzione automatica del rapporto che si riferisce al dato oggettivo del numero dei giorni di malattia, di talché è del tutto normale, e niente affatto sintomatico di un qualche intento discriminatorio, vessatorio e mobbizzante, che un simile licenziamento possa essere intimato in costanza di malattia” (Tribunale Roma, Sentenza 26 ottobre 2017, n. 8700).

Tuttavia i Tribunali che hanno accolto le tesi difensive dei lavoratori disabili, circa il carattere discriminatorio indiretto del licenziamento per superamento del periodo di comporto, ed annullato i recessi datoriali, hanno ritenuto dirimente il fatto che il licenziamento non costituisce … una discriminazione diretta, ma una discriminazione indiretta, giacché l’esercizio del potere datoriale di recesso costituirebbe applicazione di “una disposizione apparentemente neutra(la normativa sul comporto) che però mette il lavoratore (portatore in questo caso di un … handicap) in una posizione di particolare svantaggio” (cfr. Trib. Milano, sent. n. 2857/2016). Con la conseguenza che sarebbe “onere della parte datoriale provare che l’intero periodo di assenza … era assolutamente indipendente dalla … patologia” invalidante (cfr. Trib. Milano, sent. n. 2857/2016).

Altra questione è quella della computabilità, nel periodo di comporto, delle assenze per malattia derivanti dalla patologia per la quale il lavoratore è stato riconosciuto invalido. In questo caso la giurisprudenza ha riconosciuto la loro computabilità a meno che le assenze non derivino dall’assegnazione del lavoratore a mansioni incompatibili con il suo stato di salute (Cassazione n. 9395/2017).

Il principio vale però per qualsiasi tipo di licenziamento per comporto poiché dal conteggio dei periodi di malattia potrebbero essere espunte le assenze derivanti da incompatibilità o dannosità delle mansioni del lavoratore interessato con il suo stato di salute portando quindi ad escludere dal computo quelle malattie la cui origine possa derivare da responsabilità o inadempimenti del datore di lavoro.

Naturalmente l’onere di provare il nesso di causalità tra malattia e ambiente lavorativo ricade sul lavoratore.

Ma in caso di lavoratore disabile il problema della compatibilità delle mansioni con le condizioni psico fisiche assume maggiore rilevanza provocando quindi una particolare attenzione nell’applicare ad una categoria protetta il comporto.

Duplici sono quindi i profili da sottoporre a particolare attenzione in caso di superamento del periodo di comporto da parte di un lavoratore disabile.

Innanzitutto va analizzata la compatibilità delle mansioni con le condizioni fisiche e le limitazioni del lavoratore interessato e poi, ai fini di evitare intenti discriminatori, anche indiretti, è opportuno avere un particolare riguardo rispetto ai meccanismi di calcolo del comporto. Si vuole dire che, comunque, la valutazione dell’assenteismo nei confronti di un lavoratore disabile va effettuata con attenzione ad esempio concedendo periodi di aspettativa, anche concordati oltre a quelli previsti dalla contrattazione collettiva, ovvero, sempre a titolo di esempio, non tenendo conto di periodi di cura o di ricovero direttamente derivanti dalla patologia che affligge il lavoratore (come fanno alcuni CCNL). Od ancora calcolando con una certa elasticità il periodo di comporto magari configurandolo in un momento successivo allo stretto spirare del termine previsto dal contratto collettivo, concedendo così al lavoratore disabile un maggiore spazio per recuperare, eventualmente, l’efficienza fisica.

Nel nostro ordinamento è però vigente il decreto legislativo 18 luglio 2011 n. 119 il quale prevede che il lavoratore al quale “è stata riconosciuta una riduzione della capacità lavorativa superiore al 50% può fruire ogni anno di un congedo non superiore a 30 giorni per cure, eventualmente anche in periodi frazionati, che non rientra nel periodo di comporto e per cui ha diritto a percepire il trattamento economico delle assenze per malattia”.

Tale previsione normativa, insieme alla L. 104/1992, è stata ritenuta dal Tribunale di Milano un idoneo meccanismo difensivo, per il lavoratore che versi in stato di disabilità, per evitare una discriminazione indiretta nei termini evocati dalla giurisprudenza comunitaria.

Secondo il Tribunale di Milano infatti “Trattasi di una tutela espressamente finalizzata a fornire un ulteriore strumento di garanzia che, nonostante non incida direttamente sulla durata massima del periodo di comporto previstodalla contrattazionecollettivaconsente al lavoratore di sottoporsi a cure assentandosi dal lavoro(senza computabilità del relativoperiodo ai fini del comporto) proprio per consentire quelle cure specificamente collegate allo stato di malattiaspecificaderivante dalla disabilità o dall’handicap così permettendo un recupero delle condizionidi salute e preservandolo quindi dal rischio che la condizione da cui è affetto rappresenti elemento (seppur indiretto) per un trattamento deteriore rispetto al lavoratore affetto da malattia generica, che a tale tutela non può accedere” (Tribunale di Milano, Sentenza n. 1883/2017 del 23 gennaio 2017).

In definitiva ove si voglia procedere alla risoluzione per superamento del periodo di comporto nei confronti di un lavoratore appartenente alle categorie protette è preferibile non applicare automaticamente i dettati contrattuali collettivi ma valutare, caso per caso, quali accorgimenti adottare per evitare il rischio che il recesso possa essere configurato come discriminatorio e cioè mirato a risolvere il rapporto con un lavoratore proprio in virtù della sua disabilità.

Interpretazione elaborata in collaborazione con ISPER HR Review del 3 febbraio 2021

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 Sull’argomento si stanno susseguendo nel tempo diverse pronunce delle corti di merito, tra cui appare significativa la sentenza del Tribunale di Vicenza n. 181 del 27 aprile 2022  che ha affrontato un caso in cui una lavoratrice, portatrice di handicap, chiedeva l’annullamento del licenziamento intimatole per superamento del periodo di comporto, asserendone la discriminatorietà, dato che le assenze per malattia erano, a suo dire, riconducibili alla sua disabilità.
La sentenza in questione, dopo aver confermato che la nozione di handicap, anche ai fini dell’applicazione della normativa nazionale, è quella definita dalla Corte di Giustizia,  ha affermato che “i principi espressi dalla CGUE devono essere contestualizzati, tenuto conto dei profili fattuali peculiari delle fattispecie poste al suo esame, nonché del margine più o meno ampio di apprezzamento lasciato agli Stati membri  nel raggiungimento dello scopo della direttiva, e nella definizione delle misure atte a realizzarlo“.  Alla luce di ciò,  il Tribunale vicentino ha stabilito come non possa ritenersi sussistente in capo al datore di lavoro l’obbligo di scomputare dal periodo di comporto i giorni di malattia riferibili alla disabilità di cui soffre il lavoratore.
E ciò alla luce dell’imprescindibile bilanciamento degli interessi del lavoratore disabile al mantenimento del posto di lavoro con quello dell’impresa a una prestazione lavorativa utile, tenuto conto che l’art. 23 della Costituzione vieta prestazioni assistenziali a carico del datore di lavoro, ove non previste dalla legge.  La sentenza precisa inoltre che anche se si volesse scomputare dal periodo do comporto i giorni di malattia riferibili all’handicap, sarebbe necessario porre il datore di lavoro nella condizione di conoscere quali delle malattie siano riferibili alla condizione di disabilità.

Consulta la sentenza del Tribunale di Lodi n. 19 del 12 settembre 2022;

Consulta  la sentenza del Tribunale di Vicenza n. 181 del 27 aprile 2022;

Consulta sullo stesso argomento la sentenza della Corte d’Appello di Torino n. 604 del 3 novembre 2021.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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