Recesso anticipato dal rapporto di lavoro a tempo determinato | ADLABOR | ISPER HR Review

Il contratto di lavoro a tempo determinato è un rapporto nel quale è prevista una durata predeterminata, mediante l’apposizione di un termine.

Alcuni istituti che regolano i rapporti di lavoro a tempo indeterminato non sono compatibili con quei rapporti sottoposti ad un termine per espressa volontà delle parti, come nell’ipotesi della stipula di contratti a termine: è il caso del recesso anticipato per ragioni diverse dalla giusta causa.

Il soggetto che stipula un contratto a tempo determinato è tenuto a rispettare la scadenza concordata.

Ciò vale per il datore di lavoro che non può procedere ad un recesso neanche qualora sussistano ragioni connesse alla produzione o all’organizzazione dell’azienda: «Diverso è il discorso per l’ipotesi in cui venga addotta come motivo del recesso ante tempus una riorganizzazione dell’assetto produttivo: in tali casi, stante l’inapplicabilità della richiamata Legge n. 604 e non rinvenendosi nel libro quinto del codice civile un’apposita disciplina, deve necessariamente farsi riferimento alle normali regole dei contratti, in forza delle quali non è consentito ad una delle parti contraenti assumere iniziative che eventualmente rendano non più (o meno) utile la prestazione della controparte. In altri termini, se in un rapporto per il quale non sia previsto preventivamente un limite di durata e sia assistito dalla garanzia di una stabilità (più o meno intensa), può pensarsi che sopravvengano delle ragioni, che rendano oggettivamente non più conveniente mantenere in vita il rapporto, ciò non vale quando la durata sia limitata nel tempo, soprattutto se è il datore che, in considerazione di particolari sue esigenze, si avvalga dello strumento del contratto a termine».

In altre parole, «qualora il datore di lavoro proceda ad una riorganizzazione del proprio assetto produttivo, non può avvalersi di tale fatto per risolvere in anticipo un contratto di lavoro a tempo determinato» (Corte di Cassazione, 10 febbraio 2009, n. 3276).

Ma anche il lavoratore è, in linea di principio, tenuto a rispettare la durata del contratto.

E se anche in termini di prassi si ritiene che il dipendente possa recedere prima della scadenza senza particolari formalità è però da tenere presente che una risoluzione anticipata rispetto al termine può costituire comunque un inadempimento contrattuale che, come tale, può dare adito ad una richiesta risarcitoria nei confronti del lavoratore inadempiente.

La parte che recede, infatti, lede l’interesse dell’altra parte del rapporto che faceva affidamento su una determinata durata della relazione contrattuale.

Quali sono le conseguenze quando il datore o il lavoratore recedono senza giusta causa?

In caso di recesso datoriale il risarcimento si identifica con le retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito alla data del licenziamento alla scadenza naturale del rapporto.

Dal punto di vista dell’impresa, infatti, un orientamento costante in giurisprudenza afferma che «se a recedere è il datore di lavoro, il lavoratore ha diritto a ricevere le retribuzioni che avrebbe percepito ove il contratto si fosse concluso alla scadenza prefissata» (Tribunale di Roma, 28 settembre 2020 n. 4817).

In questo caso, i giudici, con riferimento agli articoli del Codice Civile 1218 e 1223, individuano nelle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito se il datore non avesse posto fine al rapporto, un parametro idoneo a risarcire sia il danno emergente, ovvero ciò che il lavoratore perde nel momento in cui il datore recede anticipatamente senza giusta causa, sia il lucro cessante, e cioè il mancato guadagno provocato da un recesso illegittimo (Tribunale di Chieti 14 luglio 2020, n. 132).

Al contrario, nel caso in cui sia il dipendente a risolvere il rapporto di lavoro, la richiesta di danno non può essere automaticamente configurata in un importo corrispondente alle retribuzioni che sarebbero maturate fino alla scadenza ma, al più, mutuando dal rapporto a tempo indeterminato, si potrebbe utilizzare il parametro della misura dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Ma in questo caso il risarcimento va, innanzitutto, provato concretamente e poi un vaglio giudiziario potrebbe ritenere eccessivo un ristoro corrispondente all’indennità sostitutiva del preavviso che è un istituto tipico del rapporto a tempo indeterminato e quindi non automaticamente applicabile ad altri tipi di rapporto.

Inoltre si potrebbe ritenere che l’onere sopportato dal datore per sostituire lavoratore dimissionario non sempre potrebbe avere una consistenza tale da corrispondere al valore dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Ma quando è il lavoratore a presentare le proprie dimissioni senza giusta causa, infatti, l’atteggiamento della giurisprudenza si mostra più rigido: affinché venga accolta la richiesta presentata dal datore di lavoro di farsi corrispondere una somma a titolo di risarcimento del danno è necessario che lo stesso datore di dimostri come l’abbandono improvviso della relazione contrattuale abbia creato all’organizzazione produttiva un danno.

Ammesso che il datore di lavoro riesca ad adempiere a tale onere probatorio, la giurisprudenza applica comunque un criterio quantitativo diverso rispetto al caso in cui sia il datore a recedere dal contratto: il parametro maggiormente utilizzato in giurisprudenza, infatti, è la condanna del lavoratore alla corresponsione di una somma pari all’importo dell’indennità di preavviso, ancorché, come si è già detto, nei rapporti a tempo determinato il preavviso non sia un istituto specificamente previsto, che ha la funzione economica di ristorare la parte che subisce il recesso dalle conseguenze pregiudizievoli della cessazione prematura del rapporto di lavoro.

In ogni caso il Codice Civile, all’articolo 2119, prevede espressamente la possibilità di recedere dal contratto prima della scadenza del termine qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.

Quindi, nel contratto a termine, il recesso anticipato è ammesso solamente a fronte di una cd. giusta causa, ovvero di un fatto di gravità tale da far venir meno il vincolo di fiducia sussistente tra le parti in misura tale da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro.

Il lavoratore, da un lato, può rassegnare le dimissioni per giusta causa sia per fatti che riguardino nello specifico il rapporto di lavoro – e in questo caso la circostanza rilevante si concretizza in un inadempimento contrattuale perpetrato dal datore di lavoro grave al punto da non consentire la prosecuzione, nemmeno temporanea del rapporto -, sia per fatti ad esso estranei, quali, a titolo meramente esemplificativo, impedimenti personali del dipendente che non gli consentono di svolgere le proprie mansioni o circostanze particolari, legate alla natura dell’attività o all’ambiente lavorativo, che rendono impossibile per il lavoratore l’adempimento della propria prestazione lavorativa.

Più nello specifico, tra le causali di dimissioni per giusta causa individuate dai giudici vi sono:

  • mancato o ritardato pagamento della retribuzione

  • omesso versamento dei contributi (purché non sia stato a lungo tollerato dal lavoratore);

  • comportamento ingiurioso del superiore gerarchico verso il dipendente;

  • pretesa del datore di lavoro di prestazioni illecite da parte del lavoratore;

  • mobbing;

  • aver subito molestie sessuali nei luoghi di lavoro;

  • modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative;

  • spostamento del lavoratore da una sede all’altra senza che vi siano «comprovate ragioni tecniche organizzative e produttive» come richiesto dall’articolo 2103 del codice civile.

Sul fronte opposto, invece, il licenziamento per giusta causa può essere disposto dal datore di lavoro nel caso in cui il lavoratore abbia posto in essere comportamenti disciplinarmente rilevanti, connessi o meno alla sfera del contratto, purché idonei a riflettersi nell’ambiente di lavoro e a far venire meno la fiducia che impronta di sé il rapporto, così da non poterne più consentire la prosecuzione, nemmeno provvisoria.

In sostanza la giusta causa di licenziamento vale anche nei contratti a termine.

Interpretazione elaborata in collaborazione con ISPER HR Review del 21 giugno 2022.


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