Passaggio da part-time a full-time: illegittimo il licenziamento in caso di rifiuto del lavoratore | ADLABOR | ISPER HR Review

Con sentenza n. 15999 del 18 maggio 2022, la Corte di Cassazione è intervenuta in tema di trasformazione del rapporto di lavoro da part-time a full-time, soffermandosi in particolare sulla legittimità (o meno) del licenziamento del lavoratore che si sia rifiutato di sottostare, in assenza di accordo con il datore di lavoro, al passaggio ad un rapporto di lavoro a tempo pieno. Ma a maggior ragione sarebbe illegittima l’imposizione di una trasformazione da full time a part-time.

Nello specifico, il lavoratore aveva impugnato il licenziamento comminatogli dall’Università datrice di lavoro, invocando l’assenza ingiustificata del dipendente, in seguito alla trasformazione del rapporto di lavoro, trasformazione cui il dipendente non aveva aderito, da part-time misto a full-time.

I Giudici di legittimità, dopo aver fatto il punto sui riferimenti normativi e i principi enunciati anche a livello comunitario, hanno stabilito che non può considerarsi legittimo il recesso del datore di lavoro basato esclusivamente sul rifiuto del lavoratore ad acconsentire alla trasformazione del rapporto di lavoro da part-time a full-time.

Più nello specifico, con sentenza del 14 maggio 2020, la Corte d’Appello di Bari aveva confermato la decisione assunta dal Tribunale di Foggia, il quale aveva respinto l’impugnazione proposta dal dipendente e considerato legittimo il licenziamento intimato dall’Università, in considerazione della correttezza formale del provvedimento che aveva modificato le modalità di esecuzione oraria del rapporto di lavoro.

Di contro la Corte di Cassazione ha ritenuto di riformare la pronuncia del Giudice di secondo grado e annullare il recesso del datore di lavoro.

La Suprema Corte ha richiamato – in merito all’esecuzione della prestazione di lavoro secondo modalità part-time – il disposto dell’art. 8 del D.Lgs. 81/2015, secondo cui «il rifiuto del lavoratore di concordare una variazione dell’orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento». Tale disposizione attua, nell’ordinamento interno, la clausola 5, punto 2, dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo parziale allegato alla Direttiva 97/81/CE secondo cui «il rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da un lavoro a tempo pieno ad uno a tempo parziale, o viceversa, non dovrebbe, in quanto tale, costituire motivo valido per il licenziamento, senza pregiudizio per la possibilità di procedere, conformemente alle leggi, ai contratti collettivi e alle prassi nazionali, a licenziamenti per altre ragioni, come quelle che possono risultare da necessità di funzionamento dello stabilimento considerato».

Tale clausola è stata interpretata dalla Corte di Giustizia (con sentenza del 15 ottobre 2014 (nella causa C-221/13) nel senso che essa «non osta ad una disposizione nazionale che consente al datore di lavoro di trasformare un contratto di lavoro a tempo parziale in un contratto a tempo pieno contro la volontà del lavoratore, in quanto è volta unicamente ad escludere che l’opposizione di un lavoratore ad una simile trasformazione del proprio contratto di lavoro possa costituire l’unico motivo del suo licenziamento, in assenza di altre ragioni obiettive».

Il principio espresso dalla Corte di Cassazione, e ricavato dalla norma – letta anche alla luce dei principi comunitari –, si sostanzia dunque nel fatto che l’opposizione del lavoratore ad una trasformazione del rapporto di lavoro da part-time a full-time non può costituire in sé stessa ragione del licenziamento.

Alla luce delle suddette considerazioni, la Corte di Cassazione ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato sulla sola base del rifiuto ad ottemperare ad una disposizione unilaterale di trasformazione del rapporto: «Ciò consente immediatamente di escludere che il datore di lavoro-Pubblica Amministrazione possa adottare la sanzione del licenziamento disciplinare per effetto del rifiuto del lavoratore ad ottemperare ad una disposizione unilaterale di modifica del regime dell’orario di lavoro da part-time a tempo pieno».

Da ciò deriva, dunque, che ogni cambiamento dell’orario di lavoro – sia il passaggio da part-time a full-time o viceversa, sia una variazione della fascia oraria del part-time – dev’essere validata mediante accordo tra le parti e presupporre il consenso del lavoratore, senza che dall’eventuale rifiuto possa derivare il licenziamento del dipendente.

Tale manifestazione di volontà da parte del lavoratore deve formarsi in maniera libera e senza alcun condizionamento legato al timore di una possibile ripercussioni da parte dell’Azienda.

La decisione della Corte consente di svolgere un ulteriore approfondimento.

La giurisprudenza, in diverse occasioni, ha sottolineato come il divieto di cui all’art. 8 D.Lgs. 81/2015 non sia assoluto, dovendo essere interpretato con ragionevolezza e buona fede ed essere considerato operante a tutti gli effetti quando il licenziamento del lavoratore sia legato unicamente al rifiuto di quest’ultimo di eseguire la prestazione lavorativa secondo le nuove modalità.

Di natura differente è invece il caso in cui tale rifiuto sia legato ad una situazione in cui esigenze oggettive e organizzative non consentono di mantenere il ruolo.

Al riguardo, il Tribunale di Ivrea, con sentenza del 7 maggio 2019, ha chiarito che «l’art. 8, comma 1, D.Lgs. 81/2015 non sancisce un divieto assoluto di risoluzione del rapporto di lavoro. Il licenziamento non può essere fondato sul diniego in sé e per sé considerato, ma non è precluso al datore di lavoro l’esercizio del recesso quando il rifiuto alla proposta di trasformazione entri in contrasto con le ragioni di carattere organizzativo che, ai sensi dell’art. 3 Legge 604/1966, possono integrare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento».

Dunque, si può affermare che è illegittimo il licenziamento (che assume un connotato sostanzialmente ritorsivo) motivato dal rifiuto del lavoratore rispetto alla modifica dell’orario proposta dall’Azienda, mentre può considerarsi legittimo il licenziamento intimato che si fondi su un giustificato motivo oggettivo quando le mansioni del dipendente, nella fascia oraria concordata, siano venute meno.

Interpretazione elaborata in collaborazione con ISPER HR Review del 16 novembre 2022.


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