Licenziamento collettivo – Computabilità delle risoluzioni consensuali – I mutamenti nell’orientamento della giurisprudenza | ADLABOR | ISPER HR Review

In prossimità dell’annunciato termine dell’efficacia del divieto di licenziamento da Covid-19 e alle porte di una stagione nella quale presumibilmente numerose aziende saranno costrette a fare ricorso ai licenziamenti collettivi, la Corte di Cassazione ha recentemente ribaltato il suo precedente orientamento in tema di computabilità o meno delle risoluzioni consensuali nel numero minimo di cinque licenziamenti da cui scaturisce l’obbligo di attivare la procedura di licenziamento collettivo ex art. 24 L. 223/1991.

Ma andiamo con ordine ripercorrendo brevemente l’evoluzione giurisprudenziale su questo tema.

Secondo la giurisprudenza più risalente nell’ambito di una procedura di riduzione del personale ai sensi dell’art. 4 della L. 223/1991 – il termine «licenziamento» andava inteso in senso rigorosamente tecnico, senza potervi ricondurre altre fattispecie di cessazione del rapporto di lavoro riconducibili, in tutto o in parte, a una scelta del dipendente (quali ad esempio, dimissioni, risoluzioni consensuali o prepensionamenti) anche ove tali forme di cessazione del rapporto fossero riconducibili alla medesima operazione di riduzione delle eccedenze della forza lavoro giustificante il ricorso ai licenziamenti [Cass. 22 febbraio 2006, n. 3866; Cass. 29 marzo 2010, n. 7519].

Successivamente con l’ordinanza n. 15401 del 20.07.2020, la Cassazione ha affermato che nel numero minimo di cinque licenziamenti – in presenza dei quali, in base all’art. 4 della L. 223/1991, deve essere attivata la procedura collettiva di informazione e consultazione sindacale – rientrano anche le risoluzioni consensuali che siano l’esito di un trasferimento comunicato dal datore e non accettato dal dipendente.

In particolare, la   Corte di Cassazione – nel ribaltare la statuizione della Corte d’Appello – ha affermato, preliminarmente, che secondo l’art. 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a) della Direttiva 98/59/CE (concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi), rientrerebbe nella nozione di «licenziamento»  anche il fatto che un datore proceda, unilateralmente ed a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del dipendente, da cui consegua la cessazione del contratto, anche su richiesta dal prestatore medesimo.

La Cassazione ha affermato infatti che ” alla luce di una corretta interpretazione dell’articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a) della Direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998 rientra nella nozione di «licenziamento» il fatto che un datore di lavoro  proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto,  per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro, anche su richiesta dal lavoratore medesimo (Corte di Giustizia UE 11 novembre 2015 in causa C-422/14, p.ti da 50 a 54)”.

Tuttavia  con la sentenza n. 15118 del 31.05.2021, la Suprema Corte ha mutato tale suo, peraltro recente , orientamento affermando che nel numero minimo di cinque recessi, necessario per integrare l’ipotesi del licenziamento collettivo, non possono includersi altre differenti ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all’iniziativa del datore.

In tale pronuncia la Cassazione rileva preliminarmente che   l’intenzione di procedere al licenziamento individuale  per motivo oggettivo  ex art. 7 L. 604/1966, al fine dì intraprendere la nuova procedura di conciliazione dinanzi alla ITL, non può  ritenersi di per sé un licenziamento e pertanto  non è computabile ex art. 4 L. 223/1991.

Secondo la Suprema Corte l’attivazione della procedura di cui all’art. 7 della L. 604/1966 rivela la chiara manifestazione della volontà di recesso, che rimane tuttavia ancorata alla circostanza che i licenziamenti non possono essere intimati se non successivamente allo svolgimento dell’iter di legge.

Tuttavia, per i Giudici di legittimità, ciò non equivale, però, a un atto di licenziamento da computare nel numero necessario per l’attivazione della procedura collettiva di cui alla L. 223/1991, poiché la procedura individuale può concludersi anche con un accordo tra le parti, ove il dipendente accetta il recesso e, a fronte di un incentivo all’esodo, formalizza la risoluzione consensuale.

Si tratta certamente di una decisione coerente con l’impianto e la ratio della norma che disciplina i licenziamenti collettivi, tuttavia occorrerà prestare attenzione alle successive pronunce  sul tema della Corte di Cassazione per avere certezza che tale orientamento interpretativo  sia divenuto maggioritario.

Interpretazione elaborata in collaborazione con ISPER HR Review del 30 giugno 2021


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