Contrasto alla delocalizzazione – strumento efficace? | ADLABOR | ISPER HR Review

La Legge di Bilancio per il 2022 (L. 234/2021 – articolo 1, commi 224 – 237), forse sull’egida di alcune recenti iniziative che hanno visto la chiusura di stabilimenti industriali con un rilevante numero di dipendenti, ha introdotto una specifica normativa che vorrebbe essere di contrasto alle delocalizzazioni. La disciplina si rivolge ai datori di lavoro che nell’anno precedente abbiano occupato, con contratto di lavoro subordinato, inclusi gli apprendisti e i dirigenti, mediamente almeno 250 dipendenti.

Un primo aspetto particolare riguarda l’inclusione, nel computo dei dipendenti, degli apprendisti che invece erano esclusi dal conteggio dei limiti numerici ex articolo 47 decreto legislativo 81/2015. Non riteniamo che l’inclusione degli apprendisti nei limiti numerici ai fini di questa specifica tipologia di licenziamenti sia particolarmente rilevante ma è implicitamente un disincentivo all’utilizzo dell’apprendistato che dovrebbe invece essere favorito come strumento di incremento occupazionale e di arricchimento professionale.In sostanza un’impresa che abbia più di 250 dipendenti, riteniamo a livello nazionale, anche se articolati in diverse unità produttive, sarà sottoposta alla nuova disciplina.

La nuova procedura, però, trova applicazione nel caso in cui si intenda procedere alla chiusura di una sede, uno stabilimento, una filiale od un ufficio, con cessazione definitiva della relativa attivitàe con licenziamentodi un numero di lavoratori non inferiore a 50.

La specifica dizione “cessazione definitiva della relativa attività” lascerebbe intendere che la procedura si attivi nel solo caso in cui vi sia la chiusura totale dell’unità produttiva. Un profilo interpretativo si porrà qualora nello stabilimento si cessi l’attività produttiva ma permangano, nel sito, funzioni quali quelle, ad esempio, di carattere commerciale o amministrativo. Solo chiarimenti ufficiali o l’interpretazione giurisprudenziale potranno specificare se si integri la fattispecie con la dismissione totale del sito produttivo o soltanto con la cessazione dell’attività.

Di contro un semplice ridimensionamento dell’organico di uno stabilimento, anche ove interessi più di 50 lavoratori, dovrebbe essere sottratto alla nuova procedura. In definitiva, il nuovo strumento più che disincentivare le riduzioni di personale parrebbe avere la sola finalità di evitare la desertificazione di un sito produttivo. Per cui, stando alla lettera della legge, sarebbe sufficiente mantenere un minimo di produzione o di attività nello stabilimento per evitare di integrare il requisito della “cessazione definitiva della relativa attività” che costituisce il presupposto per l’osservanza della nuova procedura.

Nel caso in cui si integrino i requisiti della chiusura e di 50 o più licenziamenti è previsto l’onere di dare comunicazione scritta “dell’intenzione di procedere alla chiusura” alle Rappresentanze sindacali aziendali e alle sedi territoriali dei Sindacati più rappresentativi e contestualmente alle regioni al Ministero del Lavoro al Ministero dello sviluppo economico e all’ ANPAL.

Tale tipo di comunicazione va effettuata almeno 90 giorni prima dell’avvio della procedura di licenziamenti collettivi di cui all’articolo 4 legge 223/91.

Ciò significa che la nuova procedura si aggiunge ed anzi precede necessariamentequanto previsto per i licenziamenti collettivi, che sarebbe obbligatorio in tutti i casi di licenziamento di più di cinque dipendenti ex legge 223/1991.

L’intenzione del legislatore parrebbe essere quella di dilatare i tempi procedurali (da 75 a 90 giorni) prima di avviare i licenziamenti al fine di consentire le soluzioni più opportune per evitare la crisi. E riguardo alla situazione dei dipendenti si tradurrebbe nella facoltà, con tempi meno ristretti, di trovare soluzioni alternative al preannunciato licenziamento, anche se il rischio è quello che si potrebbe trasformare soltanto nel dilatamento di un’agonia.

In ogni caso va tenuto presente che in mancanza della comunicazione, o prima dello scadere del termine di 90 giorni, i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e i licenziamenti collettivi sono nulli.

Poco comprensibile è la parte del testo normativo che ricomprende nel divieto di licenziamento anche quelli individuali come se fosse possibile operare uno stillicidio di licenziamenti individuali che, ove operati nell’arco dei 90 giorni della procedura, ricadrebbero comunque nella previsione del primo comma dell’articolo 24 legge 223/1991, che considera come collettivi i licenziamenti effettuati nell’arco di 120 giorni.

La procedura prevede che il datore di lavoro, nei 60 giorni dalla comunicazione dell’intenzione di chiudere, debba elaborare un piano, per limitare le ricadute occupazionali ed economiche, che preveda azioni programmate per la salvaguardia dei livelli occupazionali (ricorsa agli ammortizzatori sociali, ri- collocazioni, incentivi all’esodo formazione e riqualificazione professionale)(cessione dell’azienda o di rami, riconversione del sito produttivo). I contenuti del piano ricalcano, con qualche ampliamento, le misure per mitigare gli effetti degli esuberi già indicate nella comunicazione di apertura della procedura di mobilità, stabilite dal terzo comma dell’articolo 4 della legge 223/1991.

Tuttavia, mentre la legge del 1991 si sostanziava nel fornire delle indicazioni generiche, limitandosi a richiamare “misure idonee a porre rimedio” alla situazione di esubero, la nuova normativa opera un elencazione dettagliata di possibili accorgimenti che, anche per la loro natura, richiedono l’intervento di soggetti terzi rispetto all’azienda procedente. Si pensi ad esempio alla riqualificazione o riconversione professionale che potrà essere attuata solo con la partecipazione di altri enti (agenzie per il lavoro, fondi interprofessionali).

L’impressione è che la formulazione normativa sia più che altro un invito o un auspicio a coinvolgere gli enti competenti, già nella fase di avvio della procedura, per individuare, e soprattutto condividere con questi, tutte le misure idonee a mitigare l’impatto della programmata chiusura sia nei confronti dei lavoratori, sia nei confronti del contesto territoriale.

E che tale piano finirà per diventare un libro delle illusioni lo si deduce dal fatto che la norma richiede che il piano contenga i tempi e le modalità di attuazione delle azioni previste. Non vediamo come chi intende procedere alla chiusura di uno stabilimento posso sapere in prevenzione, ad esempio, se e quando riuscirà a cedere l’azienda od un suo ramo o a riconvertire il sito dovendo ottenere le relative autorizzazioni. E la riprova che il piano necessiti del coinvolgimento di enti terzi la si può rinvenire nel fatto che si prevede la possibilità per le Regioni di cofinanziare le azioni programmate per mitigare gli effetti della chiusura.

In prima battuta il piano sarà un elenco di buone intenzioni ove il datore di lavoro indicherà tutte le possibili misure di mitigazione ma sulle tempistiche non potrà non rinviare a quanto verrà messo a disposizione dagli altri enti interessati.

E a tale proposito la legge prevede che entro 30 giorni dalla sua presentazione, il piano venga discusso con Sindacati, Regione, Ministero del Lavoro, Ministero dello sviluppo economico e ANPAL.

Sarà quindi la discussione del piano con gli enti testé indicati il momento e l’occasione per concretizzare eventuali misure. Ed infatti l’unica misura che dipende unicamente dalla volontà datoriale è quella delle misure di incentivo all’esodo. Ma forse enunciare in prima battuta gli incentivi potrebbe risultare non opportuno perché le relative risorse potrebbero essere invece destinate anche ad altre iniziative, sempre a favore dei lavoratori, ma magari più efficaci per il loro futuro lavorativo. E non stiamo parlando di ottimizzare l’onere economico ma di uscire da una logica che vede nella sola protezione del reddito lo strumento per mitigare gli effetti dei licenziamenti.

Sarebbe invece l’occasione per rendere protagoniste le politiche attive del lavoro ad esempio coinvolgendo, in contemporanea con l’avvio del “piano”, i lavoratori in percorsi formativi o riqualificativi che potrebbero essere attuati nell’immediato destinando i lavoratori, per parte del loro orario, a programmi di riqualificazione. E ciò  anche tenendo conto del fatto che l’imminente chiusura dello stabilimento da un lato potrebbe consentire un ridimensionamento dell’attività produttiva con destinazione delle risorse ad attività formative e dall’altro i lavoratori invece di subire passivamente la prospettata perdita del lavoro si sentirebbero coinvolti in programmi di possibile reinserimento .

E tale processo si innesterebbe e favorirebbe anche un proficuo utilizzo degli strumenti di protezione, quali la cassa integrazione, che, in questo caso di inevitabile cessazione dei rapporti di lavoro (salvo l’intervento del cavaliere bianco) non sarebbe soltanto uno strumento di protezione del reddito ma anche un viatico concreto per il reinserimento dei lavoratori nel contesto produttivo.

Un ulteriore aspetto critico della nuova normativa risiede nel fatto che la legge prevede, ove non si stipuli un accordo sindacale e decorsi 90 giorni dalla comunicazione di avvio della procedura, che il datore di lavoro possa avviare la procedura di licenziamento collettivo ove però “non trova applicazione l’articolo 4, commi 5 e 6 , della medesima legge numero 223/1991”. Non è chiaro se l’esonero dalla consultazione sindacale (che rappresenterebbe una ripetizione della discussione del piano) accorci in termini della legge 223/1991 o vadano comunque rispettati i 75 giorni dall’avvio della procedura per poter procedere ai licenziamenti.

Dovranno necessariamente essere emanati dei chiarimenti oppure si dovrà attendere l’interpretazione giurisprudenziale ma, come sappiamo, non sempre la magistratura fornisce interpretazioni univoche (basta pensare alle pronunzie in materia di licenziamenti collettivi ove l’ambito di comparazione dei lavoratori da licenziare varia dalla singola unità produttiva all’intera azienda) per rilevare come la strada meno insicura sia ancora quella dell’accordo sindacale ove, al netto di qualche cane sciolto, il raggiungimento di intese e l’adesione dei singoli lavoratori dovrebbe evitare la nascita di un contenzioso che potrebbe avere effetti addirittura più gravi di quelli scaturenti dall’impugnazione dei licenziamenti collettivi “classici” solo ove il giudice dovesse ritenere applicabile la sanzione di nullità del licenziamento che, seppur dettata solo per la mancanza di comunicazione o il rispetto del termine di 90 giorni, potrebbe intendersi applicabile anche ad altri vizi, procedurali e sostanziali, della nuova procedura.

Interpretazione elaborata in collaborazione con ISPER HR Review del 26 gennaio 2022


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