Malattia in Paesi extra-UE – Certificazione e assenze ingiustificate – Disciplina | ADLABOR | ISPER HR Review

Accade ormai sovente, in un’epoca sempre più caratterizzata dalla globalizzazione estrema e dall’inarrestabile accelerazione dei flussi migratori che coinvolgono anche l’Italia, che le aziende debbano fare i conti con una forza lavoro assai diversificata sotto il profilo etnico e dei Paesi di provenienza.

Ciò comporta la necessità, per le imprese e per i loro addetti alle risorse umane, di conoscere le specifiche discipline legali e contrattual-collettive applicabili nei confronti dei lavoratori stranieri, ad esempio in fatto di permesso di soggiorno, di fruizione delle ferie per agevolare il ritorno nei Paesi di origine e, last but not least, anche in tema di certificazione di malattia durante il soggiorno all’estero, argomento quest’ultimo su cui ci focalizzeremo in questo approfondimento.

Preliminarmente, occorre rilevare come il lavoratore, il quale contragga uno stato morboso all’estero, mantenga i medesimi diritti e doveri del dipendente che si ammali in Italia ossia:

  • giustificazione dell’assenza e diritto a ricevere il trattamento economico di malattia; previo rilascio di idonea certificazione medica;
  • diritto alla conservazione del posto di lavoro per il periodo di cosiddetto comporto;
  • obbligo di informare tempestivamente il datore di lavoro dell’assenza;
  • obbligo di far certificare lo stato di malattia da un medico autorizzato;
  • obbligo di rispettare le fasce di reperibilità durante il periodo di malattia certificato.

Le modalità e la conseguente validità dei certificati di malattia rilasciati all’estero sono variano a seconda del Paese ove si trova a soggiornare il lavoratore affetto da malattia.

Se la malattia è insorta in un Paese UE, i Regolamenti comunitari (Reg. CE n. 883/2004 e Reg. CE n. 987/2009) – prevedono che venga applicata la legislazione dello Stato membro dove risiede l’Istituzione competente, ovvero quella presso la quale il lavoratore risulta assicurato e quindi, dal nostro punto di vista, quella italiana.

Per confermare il diritto all’indennità da malattia e giustificare l’assenza dal lavoro, il lavoratore dovrà rivolgersi al medico (o all’Istituzione incaricata) del Paese in cui si trova al momento dell’evento morboso e richiedere la certificazione dello stato di incapacità lavorativa dal primo giorno utile. Il certificato attestante lo stato di malattia dovrà essere trasmesso, entro due giorni dal rilascio, sia alla Sede INPS di riferimento sia al datore di lavoro[1].

In questa fattispecie, non vi è, a carico del lavoratore malato, alcun obbligo di traduzione in lingua italiana della certificazione di malattia.

Se la malattia è insorta in un Paese extra-UE con il quale l’Italia ha stipulato appositi accordi o convenzioni bilaterali in materia di sicurezza sociale il lavoratore dovrà farsi rilasciare la certificazione di malattia attestante lo stato di incapacità lavorativa: il certificato rilasciato dal medico o dalla struttura sanitaria straniera è equiparato a quello italiano e deve essere inviato senza necessità di traduzioni o legalizzazioni[2], purché ciò sia espressamente previsto dalla convenzione o accordo bilaterale in vigore.

Si tratta nello specifico dei Paesi extra-UE:

1) con i quali sono stati stipulati Accordi che prevedono l’applicazione della disciplina comunitaria (Islanda, Norvegia e Liechtenstein in base all’Accordo SEE, Svizzera e Turchia);

2) con i quali sono stati stipulate Convenzioni estese (Argentina, Bosnia-Erzegovina, Brasile, Croazia, Jersey e Isole del Canale, Macedonia, Principato di Monaco, Repubblica di San Marino, Stato di Serbia e Montenegro, Tunisia, Uruguay e Venezuela).

Sono altresì esenti dall’onere di legalizzazione del certificato medico, a condizione che rechino l'”apostille“, gli atti e i documenti rilasciati dagli Stati aderenti alla Convenzione dell’Aja del 5.10.1961[3].

L’Apostille è un timbro che viene apposto dal governo di un Paese firmatario della Convenzione dell’Aja del 1961, che riconosce la qualità con cui opera il funzionario pubblico che ha sottoscritto il documento, la veridicità della firma e l’identità del timbro o del sigillo del quale il documento è rivestito. L’apposizione di tale timbro non rende più necessaria la legalizzazione del documento da parte dell’autorità diplomatica del Paese di provenienza.

Se la malattia si verifica invece durante il temporaneo soggiorno in un Paese extra-UE che non abbia stipulato alcuna convenzione o accordo specifico in materia con l’Italia, la corresponsione dell’indennità di malattia e l’idoneità del certificato a giustificare l’assenza dal lavoro avviene solo dopo la presentazione all’INPS della certificazione originale, legalizzata a cura della locale rappresentanza diplomatica o consolare italiana.

L’INPS con Circolare n. 95/2006 ha precisato che spesso le ambasciate o i consolati incaricano medici di loro fiducia di esaminare i certificati.  “Detti medici, dopo averne accertata la veridicità, consegnano agli interessati (che talvolta sono anche sottoposti a visita) la certificazione “originale” convalidata ovvero, in sostituzione di questa, altra certificazione da loro redatta direttamente in lingua italiana.  In presenza di tali situazioni la legalizzazione è perfezionata all’atto della convalida della certificazione originale o della redazione della nuova certificazione, fermo restando che è comunque sempre necessaria la attestazione, da parte dell’ambasciata o consolato interessati, della veste di proprio medico fiduciario conferita al sanitario che ha svolto il servizio in argomento, nonché della autenticità della sua firma”.

Un datore di lavoro che riceva un certificato di malattia da un proprio dipendente che si trova in un Paese straniero dovrà quindi valutare attentamente il rispetto da parte del lavoratore malato delle formalità prescritte per la validità del certificato medico emesso all’estero.

Infatti, se un certificato medico emesso all’estero fosse privo dei requisiti previsti per la sua efficacia, tale attestato medico non sarebbe idoneo a giustificare l’assenza del dipendente dal posto di lavoro e, conseguentemente, legittimerebbe l’avvio, da parte del datore di lavoro, di un procedimento disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro che, a seconda dei casi, potrebbe culminare anche nel licenziamento per giusta causa, in presenza di assenze di diverse giornate.

In tal senso si è pronunciata la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 24697/2022,  che abbiamo commentato su ISPER HR Review del 29 marzo 2023, in cui è stato ritenuto legittimo il licenziamento irrogato ad un dipendente  malato all’estero, affermando che: “il certificato medico redatto all’estero da un medico straniero, privo della “appostile”, ossia della formalità richiesta dalla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 (ratificata e resa esecutiva con la l. n. 1253 del 1966), ovvero privo, in alternativa, della legalizzazione a cura della locale rappresentanza diplomatica o consolare italiana, non ha valore giuridico in Italia, senza che assuma rilievo la eventuale traduzione in italiano, ed è, pertanto, inidoneo a giustificare l’assenza dal lavoro, non essendo certificata né la provenienza dell’atto da un soggetto abilitato allo svolgimento della professione sanitaria, né la diagnosi e la prognosi di malattia come attestate da un soggetto competente. ha statuito come il certificato medico redatto all’estero (nel caso specifico, Marocco), privo della cosiddette “Apostille”, ossia della formalità richiesta dalla Convenzione dell’Aja del 5.10.1961, ovvero privo, in alternativa, della legalizzazione a cura della locale rappresentanza diplomatica o consolare italiana, non ha valore giuridico in Italia, ed è, pertanto, inidoneo a giustificare l’assenza dal lavoro, non essendo certificata né la provenienza dell’atto da un soggetto abilitato allo svolgimento della professione sanitaria, né la diagnosi e la prognosi di malattia come attestate da un soggetto competente”.

[1] Il certificato può essere anticipatamente trasmesso tramite fax, PEC o e-mail, con l’obbligo successivo di presentarlo comunque in formato originale.

[2] Attestazione, da fornire anche a mezzo timbro, che il documento è valido ai fini certificativi secondo le disposizioni del Paese in cui è stato redatto il certificato di malattia. Conseguentemente la sola attestazione dell’autenticità della firma del traduttore abilitato o della conformità della traduzione all’originale non equivale alla legalizzazione e non è sufficiente ad attribuire all’atto valore giuridico in Italia.

[3] Escludendo i Paesi UE ed i Paesi extra-UE che hanno stipulato con l’Italia convenzioni o accordi, i Paesi aderenti alla Convenzione dell’Aja sono: Albania, Andorra, Antigua eBarbuda, Armenia, Australia, Azerbaijan, Bahamas, Bahrain, Barbados, Belize,Bielorussia, Bolivia, Botswana, Brunei, Burundi, Capo Verde, Cile, Cina, Colombia, Costa Rica, Dominica, Ecuador, El Salvador, Estonia, Eswatini, Federazione Russa, Fiji, Filippine, Georgia, Giappone, Grenada, Guatemala, Guyana, Honduras, India, Isole Cook, Isole Marshall, Israele, Kazakhistan, Kosovo, Kyrgyzstan, Lesotho, Liberia, Malawi, Marocco, Mauritius, Messico, Moldova, Mongolia, Namibia, Nicaragua, Niue, Nuova Zelanda, Oman, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica di Corea, Repubblica Dominicana, Saint Christopher e Nevis, Samoa, San Vincenzo e Grenadine, Santa Lucia, Sant’Elena, Sao Tomé e Principe, Seychelles, Stati Uniti d’America, Suriname, Sudafrica, Tajikistan, Tonga, Trinidad e Tobago, Turchia, Ucraina, Uzbekistan, Vanuatu.

 

Interpretazione elaborata in collaborazione con ISPER HR Review del 14 febbraio 2024.


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