Licenziamento in periodo di maternità | ADLABOR

 

Ai sensi del primo comma dell’art. 54 del d. lgs 151/2001 “Le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino”

Il secondo comma dell’art. 54 prevede che “Il divieto di licenziamento opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, e la lavoratrice, licenziata nel corso del periodo in cui opera il divieto, è tenuta a presentare al datore di lavoro idonea certificazione dalla quale risulti l’esistenza all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano”.

Ai sensi del terzo comma dell’art. 54, invece, “Il divieto di licenziamento non si applica nel caso: a) di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; b) di cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta; c) di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine; d) di esito negativo della prova; resta fermo il divieto di discriminazione di cui all’articolo 4 della legge 10 aprile 1991, n. 125, e successive modificazioni”

Il licenziamento intimato alla lavoratrice in violazione delle disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3, è nullo.

È altresì nullo il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore

La giurisprudenza ha avuto modo di pronunciarsi in piè occasioni in materia, evidenziando che: “Il licenziamento intimato alla lavoratrice in stato di gravidanza, anche nel caso di inconsapevolezza del datore di lavoro – non avendo questi ricevuto un certificato medico attestante la situazione personale della dipendente – costituisce un recesso “contra legem”. Il datore di lavoro è, pertanto, tenuto a risarcire la lavoratrice licenziata, versando le retribuzioni maturate non dalla data di comunicazione del recesso, ma da quella di presentazione materiale del certificato di gravidanza (che nella fattispecie coincideva con la notifica del ricorso ex art. 414.c.p.c.)” (Cassazione civile , sez. lav., 03 marzo 2008, n. 5749 Diritto & Giustizia 2008).

Il divieto di licenziamento di cui all’art. 2 della legge n. 1204 del 1971 opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza o puerperio e, pertanto, il licenziamento intimato nonostante il divieto comporta, anche in mancanza di tempestiva richiesta di ripristino del rapporto, il pagamento delle retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto, le quali maturano a decorrere dalla presentazione del certificato attestante lo stato di gravidanza (art. 4 d.P.R. n. 1026 del 1976)”. (Cassazione civile , sez. lav., 01 febbraio 2006, n. 2244, Giust. civ. Mass. 2006, 2).

Nel caso di procreazione assistita, la giurisprudenza comunitaria ha delineato il momento sino al quale non opera il divieto in commento, ossia fino a quando non sia ancora avvenuto il trasferimento nell’utero degli ovuli fecondati in vitro”.

Nel dettaglio, la Corte di giustizia europea ha precisato che: “Il divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti nel periodo compreso fra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo per maternità, stabilito dall’art. 10 della direttiva 92/85/Cee (concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento) non opera a favore della lavoratrice sottoposta a un trattamento di procreazione assistita qualora, alla data della comunicazione del licenziamento, non sia ancora avvenuto il trasferimento nell’utero degli ovuli fecondati “in vitro”.( Corte giustizia CE, grande sezione, 26 febbraio 2008, n. 506, D.L. Riv. critica dir. lav. 2008, 2 481).

 

In merito alle ipotesi derogatorie al divieto di licenziamento, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di precisare che: “La cessazione dell’attività quale ipotesi di deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre ex art. 2 comma 2 lett. b) l. n. 1024 del 1971 (ora art. 54 comma 3 lett. b) d.lg. n. 151 del 2001), può ricomprendere anche la chiusura del reparto cui era addetta la dipendente, ma solo a condizione che la singola unità produttiva sia formalmente e strutturalmente autonoma e che non sussista nessuna possibilità di riutilizzare la lavoratrice presso un diverso reparto o una diversa struttura aziendale. La prova di siffatta impossibilità di ricollocamento ricade sul datore di lavoro, sicché in difetto va dichiarata la nullità del licenziamento, con conseguente diritto della lavoratrice a ottenere il pagamento delle retribuzioni non corrisposte. Non rileva in proposito la mancata presentazione del certificato di gravidanza, trattandosi di adempimento che ha finalità esclusivamente probatorie e che come tale può essere sostituito dall’effettiva conoscenza dello stato di gravidanza ottenuta altrimenti dal datore di lavoro”. (Cassazione civile , sez. lav., 16 febbraio 2007, n. 3620, D.L. Riv. critica dir. lav. 2007, 2 497).

 

Anche la giurisprudenza di merito si è pronunciata sul punto, prevedendo che “In tema di tutela della lavoratrice madre, la deroga al divieto di licenziamento di cui all’art. 2, comma 2, lett. b) l. 30 dicembre 1971 n. 1204, nella ipotesi di “cessazione dell’attività aziendale, cui essa è addetta “, deve intendersi nel senso che il licenziamento è possibile – come previsto dall’ultimo comma del medesimo articolo per la deroga all’analogo divieto di sospensione della lavoratrice nello stesso periodo della gravidanza e del puerperio – anche nel caso di cessazione dell’attività del reparto cui essa è addetta, sempre che il rapporto abbia autonomia funzionale, ed a condizione che il datore di lavoro assolva l’onere probatorio – a proprio carico – circa l’impossibilità di utilizzare la lavoratrice presso altri reparti dell’azienda”. (Tribunale Novara, sez. lav., 14 febbraio 2008, Giur. piemontese 2008, 2 247).

 

In ordine al mancato superamento del periodo di prova, è stato ritenuto che II licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza per esito negativo della prova non è illegittimo in relazione alla recente normativa sulla tutela della maternità e paternità (da ultimo, art. 54, d.lg. n. 151/2001) che ha introdotto, tra le deroghe al divieto di licenziamento della lavoratrice madre, l’esito negativo della prova, pur facendo salve le disposizioni sul divieto di discriminazione con particolare riferimento all’art. 4 l. n. 125/1991. Il richiamo di tali ultime disposizioni, infatti, conferma che non è sufficiente un collegamento meramente cronologico tra maternità e licenziamento a fondare la tesi della discriminazione, ma occorre invece che il lavoratore che assume di essere stato discriminato fornisca elementi di fatto – desunti anche da dati di carattere statistico relativi ai vari atti di competenza del datore di lavoro – idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza della discriminazione, scaricando, così, sul datore di lavoro l’onere di provare che discriminazione non c’è”. (Tribunale Milano, 06 maggio 2006, Lavoro nella giur. (Il) 2007, 1 95).

Solo per completezza, si evidenzia che il divieto di licenziamento per ragioni riconducibili alla gravidanza opera anche in favore del dirigente.

“Il licenziamento di una dirigente, che sia stato adottato per ragioni collegate alla gravidanza o alla maternità della stessa, costituisce una discriminazione diretta basata sul sesso, con le conseguenze previste dall’art. 18 st. lav., a prescindere dal numero dei dipendenti e anche in favore dei dirigenti”.( Tribunale Milano, 09 agosto 2007, D.L. Riv. critica dir. lav. 2007, 4 1235)

 


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