Mobbing come malattia professionale indennizzata dall’INAIL | ADLABOR | ISPER HR Review

La Corte di Cassazione, con ordinanza del 14 maggio 2020 n. 8948, statuendo che «ogni forma di tecnopatia che possa ritenersi conseguenza di attività lavorativa risulta assicurata dall’INAIL, anche se non è compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi tabellati, dovendo in tal caso il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di causa tra lavorazione patogena e malattia», ha riconosciuto l’indennizzabilità delle patologie psichiche provocate da condotte vessatorie perpetrate ai danni del lavoratore da parte del datore di lavoro, dei superiori gerarchici o dei colleghi, altrimenti definite mobbing.

Tale fenomeno, invero, volto ad estromettere il prestatore di lavoro mobbizzato dal contesto lavorativo, e che può provocare lo sviluppo di conseguenze negative di ordine psico-fisico, è ritenuto risarcibile quale violazione dell’art. 2087 c.c., a norma del quale «l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». Si tratta di una fattispecie particolare ove la nozione di infortunio, tipicamente un evento preciso che provoca una lesione al lavoratore, viene estesa, come per la malattia professionale, a eventi non necessariamente istantanei che si protraggono nel tempo.

Per garantire al lavoratore un ristoro del danno provocato da condotte mobbizzanti, è stata ipotizzata la possibilità di considerare il mobbing quale malattia professionale ex art. 3 T.u. 1124/1965 (Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali).

Il dibattito in merito all’opportunità di assoggettare alla tutela indennitaria anche i danni cagionati da condotte mobbizzanti ha preso piede a partire dalla Circolare del 17 dicembre 2003 n. 71, mediante cui l’INAIL ha impartito, presso le proprie sedi, le istruzioni necessarie alla tutela previdenziale di alcune patologie psichiche derivanti da «costrittività organizzativa».

La posizione assunta dall’Istituto sul tema delle patologie psichiche determinate da condizioni organizzativo-ambientali di lavoro, in base alla quale «secondo un’interpretazione aderente all’evoluzione delle forme di organizzazione dei processi produttivi ed alla crescente attenzione ai profili di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, la nozione di causa lavorativa consente di ricomprendere non solo la nocività delle lavorazioni in cui si sviluppa il ciclo produttivo aziendale (siano esse tabellate o non) ma anche quella riconducibile all’organizzazione aziendale delle attività lavorative», si giustificava in relazione alla sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1988 e al Decreto Legislativo n. 38/2000 che, superando la tassatività del sistema tabellare chiuso, hanno disposto l’indennizzabilità di qualunque malattia non tabellata della quale sia provata la causa di lavoro.

In altri termini, l’INAIL muoveva dall’idea che specifiche e particolari condizioni dell’attività e dell’organizzazione di lavoro possono provocare lo sviluppo di disturbi psichici, in tal modo considerati di origine professionale.

Scorrendo l’elenco delle fattispecie1 descritte dalla Circolare non era difficile accorgersi che la stessa intendeva alludere alle condotte vessatorie e persecutorie che la psicologia del lavoro aveva, negli anni addietro, definito mobbing.

La Circolare muoveva dalla considerazione che il passaggio ad un sistema misto avesse comportato la previsione, per le malattie non tabellate, di un diverso requisito causale rispetto a quello sancito per le malattie tabellate che avrebbe garantito l’applicazione della tutela indennitaria anche a quelle patologie che non si pongono in rapporto di stretta causalità con la lavorazione svolta ma, piuttosto, in rapporto di semplice occasionalità con la stessa, uniformandosi così all’eziologia richiesta ai fini dell’indennizzabilità degli infortuni.

Ed è proprio sulla base di tale interpretazione che la Circolare ha disposto l’indennizzabilità delle malattie eventualmente sviluppatesi in seguito a condotte di mobbing: si trattava, invero, di patologie che rinvengono la propria causa nelle vessazioni impartite da colleghi, superiori gerarchici o dallo stesso datore di lavoro e che solamente nel lavoro trovano occasione per manifestarsi.

La giurisprudenza però ha sempre ribadito l’unitarietà della nozione di malattia professionale, confermando la necessità, per malattie tabellate e non, di uno stretto rapporto di derivazione causale con la lavorazione svolta.

Pur apprezzabile per la sua finalità, dalla Circolare emergevano numerose questioni controverse sul piano sistematico, a partire dalla difficoltà di ricondurre tali patologie alle nozioni di infortunio sul lavoro e malattia professionale come sancite nel T.u. 1124/1965.

Le situazioni cui la Circolare palesemente alludeva non dipendono da rischi specifici della lavorazione svolta, ma piuttosto da vicende imputabili alle conflittualità che possono formarsi sui luoghi di lavoro e che potrebbero facilmente inquadrarsi nella nozione di infortunio per il quale l’art. 2 T.u. non richiede uno stretto rapporto di causalità con la lavorazione svolta ma un più semplice nesso di occasionalità con il lavoro.

Si potrebbe dunque ammettere che le costrittività organizzative siano pienamente compatibili con l’occasione di lavoro, trattandosi invero di eventi che non sono imputabili al rischio della lavorazione, ma connessi per tempi e modalità allo svolgimento dell’attività lavorativa.

L’occasione di lavoro però non è l’unico elemento che contraddistingue la figura dell’infortunio: deve infatti sussistere l’ulteriore requisito della causa violenta, che i giudici sono soliti individuare nell’azione di un fattore esterno lesivo dotato di rapidità ed intensità.

Requisito che però non sussiste nelle situazioni di costrittività organizzativa che invece sembrano connotate dalla loro durata, sicché la patologia si pone in questi casi come l’effetto di un prolungato logoramento psichico, anziché di un singolo evento lesivo.

Per quanto anche un singolo episodio possa comportare delle conseguenze che troverebbero tutela nell’art. 2 T.u., è evidente che le situazioni descritte dalla Circolare non siano generalmente compatibili con la causa violenta degli infortuni, ma con la tipica causa lenta delle malattie professionali.

È quindi plausibile riferire le situazioni oggetto d’esame alla malattia professionale?

La difficoltà di inquadramento in questo senso deriva dal nesso eziologico.

Nello specifico, secondo il disposto dell’art. 3 T.u., la malattia professionale, ai fini dell’indennizzabilità, dev’essere contratta nell’esercizio e a causa delle lavorazioni, delimitando così l’obbligo assicurativo secondo un criterio di maggiore pericolosità.

Requisito però che appare estraneo rispetto ai disturbi da costrittività organizzativa, avendo questi ultimi una causalità estranea rispetto alle mansioni concretamente svolte dal soggetto: per poter ammettere la loro tutela occorrerebbe riconoscere alle malattie professionali una più ampia eziologia lavorativa che dovrebbe coincidere con la semplice occasionalità prevista per gli infortuni.

Ed è esattamente quanto avvenuto con l’ordinanza della Corte di Cassazione 14 maggio 2020 n. 8948.

La questione si presta ad alcune osservazioni critiche.

Una volta ammessa la tutela di patologie che non sono contratte nell’esercizio e a causa della lavorazione ai sensi dell’art. 3 T.u., ma più semplicemente in occasione di lavoro ai sensi dell’art. 2 T.u., sarebbe necessario, per ragioni di coerenza, estendere la tutela a qualunque malattia connotata dallo stesso rapporto di occasionalità con il lavoro, e non solo a determinate situazioni.

L’estensione dell’eziologia delle malattie non tabellate comporta, inevitabilmente, l’applicazione della tutela a qualunque patologia connotata dalla stessa occasionalità lavorativa, senza poter operare alcuna selezione all’interno dello stesso nesso eziologico.

Basti pensare a tutte quelle patologie che, pur non ascrivibili ad alcuna costrittività organizzativa, sono ugualmente riconducibili al contesto lavorativo (ad esempio i disturbi psichici provocati da un generico disadattamento al lavoro).

Riconoscendo l’occasionalità lavorativa delle malattie non tabellate, non rimane più nessuno spazio per distinguere le patologie causate da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro da quelle, invece, provocate dal normale svolgimento del rapporto lavorativo, poiché entrambe sarebbero ricomprese nell’unitaria nozione di occasione di lavoro.

Non resta che attendere i prossimi sviluppi della giurisprudenza al fine di verificare se l’estensione interpretativa del requisito eziologico delle malattie non tabellate sarà applicata in modo coerente a qualunque patologia contratta in occasione di lavoro.

La giurisprudenza recente, dunque, stante alcuni interrogativi sollevati dalla dottrina lavoristica, ha riconosciuto il fenomeno delle condotte mobbizzanti subite nell’ambiente di lavoro quale malattia professionale, garantita all’indennizzo erogato dall’INAIL.

[1] Marginalizzazione dall’attività lavorativa; svuotamento delle mansioni; mancata assegnazione dei compiti lavorativi con inattività forzata; mancata assegnazione degli strumenti di lavoro; ripetuti trasferimenti ingiustificati; prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto; prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione ad eventuali condizioni di handicap psico-fisici; impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie; inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro; esclusine reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale; esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo.

Interpretazione elaborata in collaborazione con ISPER HR Review del 18 maggio 2022.


Vedi Argomenti
error: Content is protected !!